giovedì 28 novembre 2013

VITA DI P (ECORE)

La mia regione, la Sardegna, tradizionalmente sostenta o meglio sostentava i suoi abitanti, in larga parte, grazie all’agricoltura e alla pastorizia.Inoltre sono nato e ho a lungo vissuto in un piccolo paese  circondato da campagne e quindi allevamenti. In quelle terre ho passato l’infanzia a scorrazzare, libero e spensierato, nel giallo onnipresente delle nostre estati, nel verde accecante delle nostre primavere e talvolta nei grigi dell’autunno e dell’inverno.In tempi, che appaiono ora remotissimi, dove pensare al futuro non si era ancora trasformato in un’eresia.
Dacché mi ricordi, vuoi per la facilità d’incontrarli un po’ ovunque , vuoi per il lavoro di mio padre (funzionario dell’Ispettorato Agrario) che appena poteva ci portava con lui per poderi e aziende provando a contagiarci la sua smisurata passione per la “campagna”, vuoi forse per la mia seppur breve carriera universitaria in Veterinaria, ho avuto modo di conoscere da vicino gli animali domestici e/o d’allevamento e da sempre quello che più ha colpito la mia immaginazione è la Pecora.
Non pensate male, per favore!
Voglio dire: avete mai guardato negli occhi uno di questi ovini? E’ molto improbabile, me ne rendo conto.
Provo a spiegarmi meglio.
Nel loro sguardo non troverete la placida rassegnazione di una mucca né  l’indifferenza del maiale e men che meno la spocchiosa arroganza di una capra; no, io nei loro occhi perennemente guardinghi ho sempre intravisto l’ombra di un terrore abissale, una paura impotente, atavica e invincibile. Come se conoscessero per davvero il terrificante destino che gli è toccato in sorte.
E allo stesso tempo ci ho sempre visto la stolida intenzione a non fare niente per cambiare.
Mai un sussulto, una deviazione dal seminato, mai niente.
Una mucca può anche incornarti a morte, i maiali possono diventare brutalmente aggressivi e anche le capre sono alquanto imprevedibili, ma le pecore….
L’aspetto davvero agghiacciante di questa ”fascinazione” è che trovo la loro esistenza una perfetta metafora della nostra esistenza di uomini.
Oggi più che mai.
In quella paura ho letto la nostra stessa paura, una paura che da tempo è dilagata inarrestabile come una maligna metastasi e ormai è diventata la principale espressione che vedo intorno a me: paura del terrorismo, paura dei migranti, paura dei diversi, paura della crisi, paura dello spread, paura dei cinesi, paura del traffico, paura dell’inquinamento causato da noi stessi, paura del meteo, paura di non arrivare a fine mese, paura di non trovare un lavoro, paura di perdere il lavoro, paura dei comunisti se mai fossero davvero esistiti, paura dello stalking, paura dell’ultima epidemia sul mercato, paura di non essere all’altezza, paura di essere giudicati, paura del proprio capo, paura di non vincere lo scudetto, paura di schierarsi, paura di vergognarsi, paura di guardarsi allo specchio e accettarsi, paura di non essere alla moda, paura delle tasse, paura della morte, paura di perdere tutto, paura, paura, paura, tante, troppe paure vere presunte o immaginarie che siano.
Una paura onnipresente, pervasiva, impregnante tale da giustificare, forse, la nascita del Ministero della Paura, come immaginava Albanese in una sua bella gag: una società senza paura è come una casa senza fondamenta.
Quella stessa paura teorizzata da Goering, il famigerato gerarca nazista: trascinare le masse è molto semplice, devi solo spaventarle (il come è compito del potere). Il resto viene da sé. Funziona sempre.
L’uomo come pecora e la società umana come il gregge.
La vita delle pecore come la nostra è un incessante tosatura, mungitura, macellazione, liquefazione.
Un continuo rinchiudersi o  farsi rinchiudere in massa dentro recinti di ogni tipo, in cui ci si annulla tra lavoro per ingrassare gli altri, egoismi, ricerca dell’effimero, accumulo di denaro inteso come sterco del nulla (ma davvero non ci si rende conto che un qualunque oggetto, a piacere, durerà più del nostro oblio?) con in fondo, molto in fondo, la voglia di ribellarsi ma poi la frustrazione aumenta e ci si dimentica di fuggire via, e i giorni passano ed è come vivere incapsulati in un unico eterno giorno grigio, senza speranze, senza alternative, troppo rincoglioniti e asserviti per tagliare la corda e senza un luogo dove rintanarsi se anche ci si provasse.
Un solo uomo e pochi cani, pronti a morsicargli il culo se non ubbidiscono, sono in grado di gestirne a centinaia e loro prone e servizievoli faranno tutto ciò che gli si ordina, riconoscenti e addirittura felici perché almeno qualcosa da brucare glielo concedono sempre.
E come se non bastasse a intervalli regolari la loro prole viene sacrificata in nome di volontà superiori, come facciamo noi nella massima espressione della nostra stupidità: la guerra. Non tanto per la faccenda di uccidere o crepare ma piuttosto per il trovarsi coinvolti in nome di assurde ideologie o bandiere sventolanti, interessi privati e lontanissimi dai propri e per conto di altri con le chiappe ben al caldo.
E ancora: avete mai visto una pecora da sola, che se ne va indisturbata per i fatti suoi?
Non esiste, semplicemente. A meno che non la troviate dentro un pentolone fumante, in compagnia di patate e cipolle.
E infine un’altra paura, forse la paura suprema, una nostra esclusiva umana: la paura di avere un proprio pensiero, una propria opinione, di avere un’autentica Mente Critica.
Quella di essere inesorabilmente ma orgogliosamente sé stessi, rifiutandosi di mandare il cervello e l’anima all’ammasso.
Senza voler vivere la vita di altri, siano essi VIP (sigh!) irraggiungibili o il vicino di casa.
Un nostro grande scrittore la coglie proprio nell’atteggiamento generale di noi Sardi (gregge per antonomasia) sintetizzandola così: il giorno che vi toglieranno le catene piangerete dal dispiacere.
A questo  paura suprema è legata, a mio avviso, quella tendenza intossicante che ha ormai raggiunto vertici siderali: la delega in bianco su tutto.
Si delega la TV all’educazione dei figli, piazzandoli appena neonati davanti ad essa per ore a farsi guardare; si delega la Scuola con la pretesa, alle prime difficoltà, di scaricare su di essa la propria inadeguatezza di genitori; si delega la Chiesa affinché  copra e alla fine perdoni ipocrisie ed ignoranza annullando il vero, unico messaggio degno di nota e cioè ama il prossimo tuo come te stesso; si delegano 22 miliardari in mutande e scalcianti un pallone (loro sì, sempre vincenti) perché occultino le proprie sconfitte quotidiane; si delega con un’inutile crocetta un nano di provincia pieno di soldi e dalla mimica ridicola o un professorone costruito in laboratorio e totalmente privo di sangue alla guida di una nazione con la misera speranza che faccia cadere qualche briciola dalla sua tavola. Avanti popolo, a bocca aperta, sotto il balcone dell’ultimo “Uomo della Provvidenza”.
E questo fa il paio con una cosa davvero triste: tutti lì a cianciare di libertà, la sconosciuta libertà individuale. Ma quando finalmente se lo trovano davanti, l’Individuo con la “I” maiuscola intendo, se la fanno sotto. E se non si muove rischia pure che lo crocifiggano , gli diano fuoco o gli sparino, a seconda del periodo storico in cui lo incontrano.
In fondo a 4 zampe si va alla grande: chissà chi è l’imbecille che gli è saltato in mente di inventarsi la posizione eretta?
Di Antonello Puggioni