domenica 9 marzo 2014

Stoned - Drogati

Cominciammo a fare uso di eroina perché avevamo bisogno di silenzio.
Le nostre vite erano prive di silenzio; quel silenzio mentale a cui tutti, più o meno consciamente, in verità aspiriamo. Nel nostro giro lavoravamo tutti, giovani e meno giovani, ma nessuno era entusiasta di ciò che faceva. Lavoravamo perché questa società è irrimediabilmente fondata sul lavoro, ma per noi il nostro lavoro non rappresentava né una gioia né un motivo di realizzazione personale... e sentivamo questa situazione come profondamente sbagliata, come se a un certo punto gli esseri umani civilizzati e “lavorativamente occupati” si fossero persi qualcosa.


La sensazione che provavamo era che l’uomo che si diceva occupato in un lavoro, fosse stato effettivamente “occupato” da qualcosa... così come un esercito occupa un Paese.


Le nostre serate alla fine degli anni ’90 si sviluppavano secondo questa prassi: prima una bottiglia di birra da 66 cl a testa, bevuta velocemente, in modo che il fegato non facesse in tempo a elaborarla (alcolici più forti non li reggevamo, perché, essendo tossici, vomitavamo subito); poi marjuana o hashish a volontà; e già a questo punto entravamo in orbita e cominciavamo a fare discorsi senza senso, talvolta a ridere talvolta a delirare; aspettavamo circa un’ora e poi c’era la botta finale... arrivava lei... la regina della sera: l’eroina. Qualcuno si bucava e qualcuno la sniffava; nel nostro gruppo non si usava fumarla.


Allora, e solo allora, giungeva l’agognato silenzio. Quel silenzio che appartiene alle vette, agli stati di coscienza più elevati, alla calma assoluta. Forse non tutti all’epoca ce ne rendevano conto, ma nell’uso di eroina non cercavamo solo “lo sballo”, perché qui non si tratta di extasi, né di anfetamina, né di cocaina, bensì della droga del silenzio... o almeno così è all’inizio, le prime volte, perché poi sparisce anche il silenzio... oltre a tutto il resto...


Le prime volte, dopo un buco o una sniffata, i pensieri e gli stati emotivi disturbanti si allontanano. Il caldo avvolgente di Dio ti entra nelle vene e tu ti senti più rilassato e più in pace di un fottuto lama tibetano. Proprio in quei momenti potevano nascere tranquille discussioni sugli argomenti più disparati. Devo premettere che nel giro che frequentavo io in quegli anni, c’erano diversi ragazzi che venivano dal liceo artistico e un paio dal classico, anche se non l’avevano finito, e uno che aveva da poco terminato l’università. Per cui ci distinguevamo nettamente da quelli che chiamavamo “tossicazzi”, ossia tossici quasi interamente svuotati dall’eroina, che vivevano di espedienti, che non venivano oramai neanche più fermati dalla Polizia... e che possedevano un background culturale decisamente più ridotto del nostro.


Si parlava spesso del senso della vita e quasi tutte le sere a un certo punto il discorso cadeva sul lavoro e sul fatto che nessuno di noi a fine giornata sentiva la soddisfazione tipica di chi produce qualcosa di bello. Per esempio, l’entusiasmo che assaporano l’artista, lo scrittore o lo sportivo.


«Manca la Bellezza! – esordì una sera uno del nostro giro che chiamavamo “il principe” – se dovessi descrivere cosa manca nella mia vita, direi semplicemente che manca la Bellezza, nulla di più e nulla di meno».
Eravamo nella stanza semibuia del mio appartamento di corso Regina Margherita, zona di Porta Palazzo, Torino. Un paio di bucomani se ne stavano riversi sul pavimento, su vecchi tappetini da ginnastica che fino a pochi mesi prima avevano accolto litri del mio sudore mentre facevo serie di addominali e flessioni sulle braccia ogni santo giorno della mia vita. Una ragazza era posata su una sedia, col capo chino in avanti e le mani unite, strette fra le cosce. Il “principe”, il ragazzo che aveva appena parlato, resisteva invece in posizione eretta, accanto al mio armadio, fumando lentamente una sigaretta e tenendo le palpebre a mezz’asta: lo sguardo tipico di chi si è appena fatto una dose. Io ero sdraiato sul mio letto, a pancia su, con un sorriso ebete sulle labbra e la bocca aperta.


Detto per inciso, il soprannome completo del principe era “il principe del Foro”, che gli era stato affibbiato sia perché aveva da poco terminato gli studi di giurisprudenza... sia perché era sfrenatamente gay!
(quando, anni dopo, avrei sentito questa stessa espressione in un film sull’omosessualità, fui preso dalla commozione e dal divertimento, perché tanti ricordi riemersero insieme in un’unica ondata emotiva)
Il “principe” è una delle persone più belle che abbia mai conosciuto. Oltre ad aver studiato giurisprudenza, è un ragazzo sensibile (nel senso del Cuore e non solo delle emozioni), suona molto bene il violino... e all’epoca si guadagnava da vivere lavorando come commesso in un negozio del centro di Torino.


La frase del “principe”ci colpì un po’ tutti, perché sintetizzava ciò che tutti, consciamente o inconsciamente, sentivamo. Anche se ricordo che nessuno commentò, nessuno disse nulla, e si percepiva nell’aria che non tacevamo perché troppo stonati dalle droghe (il che poteva succedere), ma perché in quell’occasione dire qualcosa di più sarebbe stato un ridicolo tentativo di commentare ciò che già tutti avevano sentito e non avevano nessuna voglia di spiegare sul piano intellettuale.



Tali momenti di poesia non accadevano di rado – e averli vissuti, nonostante le conseguenze che presto giunsero, lo ritengo ancora oggi un grande privilegio -, ma, d’altra parte, non era nemmeno raro che le serate prendessero una strada delirante. Per esempio, cuocere al forno una torta al cioccolato del Mulino Bianco dopo averla farcita con hashish, berci sopra dell’alcool e poi tirare giù qualche goccia di ketamina... sembra una buona idea solo se hai un acquario senza pesci al posto del cervello. Eppure una volta lo facemmo e Francone – il più anziano e grasso personaggio del nostro giro, che all’epoca aveva 45-46 anni e pesava un’ottantina di chili distribuiti a caso su tutto il corpo – passò circa mezz’ora a tentare di convincere me e “il principe” che esisteva il grasso di vespa e che con questo veniva prodotto un sapone di qualità sopraffina: il famoso sapone di vespa, per l’appunto.


Quella sera ascoltammo in silenzio tutto il discorso di Francone, fino alla fine, cioè fino a quando “il principe” non sbottò esasperato: «Sei uno stupido tossico con il cervello disidratato – cominciò a gridargli – gli insetti non sono animali, non ci si può ricavare grasso. Tu invece sei un fottuto animale: uno stupido primate senza peli da cui l’unica cosa utile che si potrebbe ricavare è proprio il grasso, come dalle balene e dai maiali».


«Non recitare la checca isterica con me – reagì Francone [sto cercando di ricordare a braccio cosa si erano detti] con diversi secondi di ritardo dovuti all’effetto cumulativo delle droghe – e non darmi dello stupido. Voi per difendere i diritti e la dignità dell’omosessualità scendete in piazza vestiti da checche. Così diventate indifendibili. Me la chiami intelligenza questa? Sono un paio di millenni che avreste bisogno di un buon addetto alle PR».


«Voi... voi... Tu stai parlando con una persona, non con una categoria. Non divagare. Ti ricordo che solo un mese fa, sotto l’effetto della ketamina, quando si è bloccata per un guasto la scala mobile della Rinascente ci sei rimasto venti minuti fermo sopra. Ti hanno portato via a forza gli uomini della sicurezza perché gli operai dovevano fare la riparazione».
E così via per tutta la sera.



Per tornare al nostro cruccio più grande, il lavoro, durante una di queste serate fra allegri tossicomani a casa mia, la ragazza – quella che avevamo lasciato posata sulla sedia – se ne venne fuori con un’intuizione non da poco: «Ho deciso che non voglio più lavorare – disse a un certo punto rompendo il silenzio e quasi perdendo l’equilibrio, – per me il lavoro è l’ultima spiaggia di chi non ha proprio nulla d’importante da fare nella vita! Io invece voglio fare qualcosa d’importante».


«Importante? Cosa vuol dire? Importante per chi?» chiesi io, mentre cercavo di metterla a fuoco attraverso le mie palpebre costantemente semichiuse.


«Importante per me. Non è che devo diventare presidente del consiglio. Ma a un certo punto voglio sentire che sto facendo qualcosa d’importante... cazzo... ho 24 anni. Non voglio diventare come mia madre: nove ore al giorno in un ufficio a fare conti».


«Se lo scopo del tuo lavoro è guadagnarti del tempo libero da vivere felicemente... allora c’è qualcosa che non va nel tuo lavoro! – intervenne “il principe”, sagace come sempre – forse stai parlando di fare qualcosa per aiutare gli altri?» chiese alla fine.


«Non lo so. È una sensazione che voglio avere dentro. Non c’entra con il mestiere che farò».


Avrete capito che la nostra situazione era giunta a un punto di stallo perché eravamo tutti prigionieri di un fraintendimento. Da una parte avevamo intuito che se del tuo lavoro non sei soddisfatto, non vale la pena lavorare. Non credevamo più – a differenza dei nostri genitori e dei nostri nonni... e della maggior parte delle persone che ci circondava – che il lavoro fosse davvero un valore, una conquista, una fortuna. Ma dall’altra parte non avevamo ancora capito che, se volevamo seriamente cambiare vita, dovevamo smetterla di criticare la società e cambiare invece all’interno di noi.


Quando iniziai a trasformarmi interiormente, uno dei concetti con i quali andavo meno d’accordo era che avrei potuto cambiare mestiere solo se avessi accettato appieno il mestiere che stavo già svolgendo in quel momento. Io ero convinto che se avessi potuto fare l’atleta (nella prima fase della mia vita) oppure lo scrittore (successivamente) allora tutto sarebbe cambiato e sarei stato finalmente felice. Ci impiegai almeno cinque anni – non sto esagerando: cinque anni trascorsi a passare da un lavoro all’altro – per realizzare che prima sarei dovuto essere felice dove stavo... e solo dopo avrei potuto cambiare mestiere.


Insomma, con le droghe è così: a volte ci sono momenti deliranti, altre volte divertenti, talvolta spunti filosofici e poetici, ma per la maggior parte del tempo è merda: crisi depressive, nausee, vomito, mal di testa, per arrivare fino alla perdita dei capelli, dei denti... e poi ci sono i tentativi di uscirne e le conseguenti crisi d’astinenza... la diarrea... il terribile inganno del metadone... argomenti di cui vi parlerò più avanti e che saranno anche una buona occasione per darvi qualche consiglio su come uscire dalla dipendenza, nel caso ci foste caduti dentro.



Salvatore Brizzi
NON DUCOR DUCO
(non vengo condotto, conduco)

http://altrarealta.blogspot.it/