sabato 25 ottobre 2014

Chiuso per crisi: in tutta Italia scompaiono negozi e botteghe storiche


Da Torino a Napoli nessuno si salva. Tasse alte, adempimenti asfissianti, affitti che ti strozzano e concorrenza dei centri commerciali. A Milano non ce la fanno nemmeno gli esercizi commerciali a due passi dal Duomo. A Genova i cinesi sostituiscono le vetrine storiche della città.

Serrande abbassate, non è una questione di orario, giorno o stagione, sono abbassate perché il proprietario non ce la fa più, time out, addio, è stato bello finché possibile.
Un allarme che sbaglieremmo a considerare affare dei commercianti. I negozi, soprattutto le piccole botteghe, fanno parte del panorama e dell’identità delle nostre città. Senza le insegne illuminate, senza le vetrine che ci distraggono e ci accompagnano, si spengono le luci e anche la vita delle strade. Che diventano semplici luoghi di passaggio. Non solo: i negozi sono un presidio che assicura la cura e la pulizia delle vie. Sono, soprattutto, un fondamentale luogo di incontro. Per parlare, scambiare non solo merci, ma anche notizie sulla vita del quartiere e dei suoi abitanti. Sono un conforto, una compagnia per chi vive in solitudine.
Milano, Torino, Genova, Roma o il Sud Italia, è sempre uguale, secondo Confesercenti i più colpiti sono bar e ristoranti, librerie e negozi di abbigliamento: tra luglio e agosto di quest’anno, per ogni nuova impresa commerciale avviata, ben due sono defunte. A giugno 2014 più del 40 per cento delle attività aperte nel 2010 ha chiuso e bruciato investimenti per 2,7 miliardi di euro. Un collasso. Così basta passeggiare per le vie, non solo periferiche, ma anche centrali delle città per scoprire cartelli con su scritto vendesi o affittasi; in alcuni casi si parla di “obsolescenza”, riferito a tutte quelle attività colpite dallo sviluppo del commercio in rete, quindi le agenzie di viaggio, i negozi di musica, home video, le librerie o le edicole (quattro chiusure ogni due nuove aperture).
Alcuni numeri: i ristoranti segnano un meno 2.500, malissimo il commercio in sede fissa (-14mila negozi), il business delle sigarette elettroniche (4 chiusure per ogni nuova apertura), l’abbigliamento (addio a 3300 negozi). Inutile l’estremo tentativo dei saldi estivi: il Codacons stima che la quota di spesa media mensile dedicata al vestiario dalle famiglie italiane si è attestata dal 2012 al 5 per cento: quasi la metà del 13,6 registrato nel 1992, e che ci poneva, assieme al Giappone, al vertice della classifica mondiale.
Milano, guai perfino in centro 
Corso Vercelli, corso Magenta, via Meravigli, avanti fino alla centralissima piazza Cordusio. Se ne contano 20 di saracinesche chiuse lungo i due chilometri e mezzo di una delle principali direttrici dello shopping milanese. La crisi c’è ancora: “Gli affitti sono troppo alti per la situazione di oggi”, lamenta la signora dietro al bancone del Food & drink Rossomagenta. Qualche passo più in là, la parrucchiera sulla soglia del locale guarda a destra e a sinistra:“Qui i negozi aprono e chiudono”. Di fronte, proprio all’imbocco di corso Magenta, la bottega Luxury lingerie non ha superato l’estate: “L’avevano inaugurato appena qualche mese fa”.
Aprono e chiudono, i negozi. Sono più quelli che chiudono, a guardare i dati della Camera di commercio di Milano: a fine giugno 2014 le attività commerciali in città, esclusi bar e ristoranti, erano 12.216: 61 in meno di un anno prima. Soffrono di più i negozi di abbigliamento (-114), quelli di articoli da regalo e per fumatori (-55, soprattutto per il crollo delle vendite delle sigarette elettroniche), i giornalai (-25) e le cartolerie (-20).
Nemmeno le zone del centro vengono risparmiate. Anzi, qui le chiusure pesano per il 20% su tutte le cessazioni. Chi è fuori dai circuiti più fortunati del Quadrilatero della moda, di corso Vittorio Emanuele e di via Dante non sempre se la passa bene: per 100 metri quadri si pagano anche 100mila euro di affitto all’anno. Troppo, le vendite non sono più quelle di un tempo. “Il diradarsi di attività è un fenomeno che già da un po’ di anni colpisce le aree meno affascinanti – spiga
Alessandro Prisco, presidente di Asco Duomo, associazione di negozianti di 25 vie del centro –. Via Larga è piena di cartelli ‘affittasi’, la seconda parte di via Mazzini è desolante, come l’inizio di corso Italia”. All’angolo tra piazza Duomo e via Mercanti c’era un negozio di abbigliamento da montagna: via anche questo, s’è trasferito fuori Milano per lasciare il posto a un temporary shop che vende accessori per la cucina. Due passi in più, di nuovo piazza Cordusio. Poi l’inizio di via Meravigli: aperto il Big’s bar e il negozio di candele Ceratina. Giù le saracinesche della storica cartoleria De Magistris, del centro fitness, della farmacia che da un po’ s’è spostata in un centro commerciale, giù quelle della boutique Ilaria Folli e del negozio di specialità dolciarie regionali, un’istituzione da 50 anni. Resistono un altro bar, la bottega di numismatica e quella di biancheria per la casa. Per ora.
Genova, meno tre al giorno
“Certi giorni scendo in strada e non riconosco la mia città”. Annalisa Parodi ha 84 anni, è vedova, se ne sta sulla porta del suo condominio e indica, una per una, le saracinesche abbassate. Poi aggiunge: “Sa, per me che sono sola il negozio era più che un posto dove comprare. Io mi mettevo il vestito bello per andarci. Era un’occasione per parlare, per sentire le notizie del quartiere, per partecipare alla vita degli altri. E se avevo bisogno di qualcosa, se non stavo bene, il macellaio mio amico veniva a darmi una mano. Ma ora anche lui ha chiuso”. Annalisa abita a Sestri Ponente, storico quartiere operaio di Genova, semplice, ma pieno di dignità e di vita. Oggi nel Ponente soprattutto alcune vie secondarie sembrano le
strade di Atene durante gli anni più bui: una lunga fila di saracinesche abbassate. Succede qui e in tutta la città, come dimostrano i dati della Camera di Commercio. L’anno nero è stato il 2013: 573 aperture e ben 938 cessazioni di attività, per usare un termine burocratico che non racconta i dolori, talvolta i drammi, delle chiusure dei negozi. Alcuni con decenni di vita alle spalle. Accade nei quartieri meno ricchi, ma anche in quelli più benestanti, come Nervi (dove hanno casa
professionisti e giocatori di serie A, per dire): storiche insegne hanno lasciato spazio a banche. Poi anche queste hanno ceduto e sono arrivati i cinesi. Sempre aperti, tutti con la stessa merce. E i genovesi, con meno soldi in tasca, li affollano.
Paolo Odone, commerciante di vecchia data e presidente della Camera di Commercio, la spiega così: “Negli ultimi 5 anni il saldo fra le aperture e le chiusure dei negozi è stato sempre negativo, con un picco di -365 – un negozio in meno per ogni giorno dell’anno – nel 2013. La crisi economica non ha fatto che accentuare una situazione resa già critica dallo “sboom” demografico di una città che aspirava al milione di abitanti e si è ritrovata sotto i 600mila. In questa situazione, le famiglie dei commercianti hanno resistito spesso con il capitale, il cosiddetto fieno in cascina, ma oggi è finito anche quello. E con i prezzi in calo dello 0,2%, una Tari fuori da ogni proporzione e un sistema fiscale insostenibile, a fine anno rischiamo un nuovo tracollo”.
Chiudono i negozi, le strade si desertificano. E la città diventa più grigia. I ragazzi a volte si ritrovano nei centri commerciali – con la polemica delle tante Coop fiorite in ogni quartiere – ma anche i colossi stanno male.
A Roma lacrime diffuse
Via del Tritone, a due passi da piazza di Spagna, lacrime per chi si ricorda come era un tempo “qui giravano i soldi, ora siamo dei pezzenti”, parola di negoziante in crisi. Via Merulana, tra Colosseo e piazza San Giovanni, la situazione è
anche peggiore, difficile trovare una saracinesca alzata, è ruggine, polvere, malinconia, abbandono. In periferia, o comunque fuori dal centro, è anche peggio: la vecchia edilizia pensata e voluta da Caltagirone, prevedeva appartamenti sopra, attività commerciali sotto: ora è un perenne cartello vendesi. “Nei primi due mesi del 2014 sono stati chiusi 682 negozi”, raccontano i dati dell’Osservatorio Confesercenti e “nei tre settori di commercio, turismo e intermediazione, dove 451 fanno parte della categoria del ‘commercio al dettaglio in sede fissa’. Detto altrimenti, negozi e botteghe artigiane”. Ma complessivamente la situazione è anche peggiore e racconta di oltre diecimila locali commerciali sfitti o invenduti, con orafi, corniciai e falegnami inseriti nella categoria “Panda”. “Persino i centri commerciali accusano il colpo, mentre le uniche attività che sembrano tener lontano la crisi sono i bar e i ristoranti. Sempre secondo la Confederazione nazionale dell’artigianato, in nove anni gli esercizi di ristoro nel cuore della Capitale sono passati dai 48 del 2003 ai 153 del 2012. Bar e ristoranti gestiti sì, da italiani, ma che appartengono sempre più a stranieri, cinesi per lo più”. Così è normale vedere a Roma delle saracinesche sollevarsi do notte, un momento, un attimo, e qualcuno varca la soglia solo per dormirci: la tariffa è tra i 30 e i 50 euro a notte, nessuna licenza, solo “un racimolare qualche soldo, sono mesi che cerco di affittare ma
niente”, spiega un ex negoziante del centro. Quindi l’escamotage del dormitorio. “Ma se ha chiuso la Ferrari, pensa noi”, insiste. Vero. Saldi al 70 per cento per lo store del Cavallino, uno dei punti di gloria dell’era Montezemolo, ora non più, casse vuote, e nessuna voglia di ripianare, la soluzione è stata quella di mollare.
Napoli ‘a nuttata non passa
A Napoli citano Eduardo De Filippo e dicono: “Adda passà ‘a nuttata”. Ma la nottata del commercio partenopeo è buia e tempestosa. Nei primi sei mesi del 2014, tra Napoli e provincia, hanno serrato le saracinesche 2.244 negozi e 591 tra bar e ristoranti. L’elenco dei caduti vanta nomi illustri. Ha chiuso dopo 50 anni il negozio di abbigliamento De Vito. Hanno chiuso altri esercizi storici come Buonanno e De Nicola. Hanno svuotato i locali grandi firme come Diesel, in piazzetta Rodinò, Frette, un punto Armani. Alla fine dell’anno scorso ha chiuso dopo 95 anni la libreria Guida a Port’Alba dove acquistava Benedetto Croce e dove intere generazioni si erano rifornite di testi scolastici. Una recente inchiesta della Procura antimafia, pm Catello Maresca, ha dimostrato che gli interessi dei distributori di cd e dvd vergini e a poco prezzo, grazie all’evasione delle tasse, si saldano con quelli dei clan camorristici che con la pirateria audio-video ricavano ingenti profitti. Con la chiusura di un altro punto Guida e di Loffredo, l’intero quartiere Vomero, 200 mila abitanti, da dove proviene una nutrita fetta dell’intellighènzia napoletana (a cominciare dal sindaco Luigi de Magistris) è rimasta sprovvista di librerie. Per fortuna, o purtroppo, c’è Internet. Costrette alla chiusura, con centinaia di dipendenti sul lastrico, le grandi catene di elettronica e prodotti culturali come Eldo in piazza Matteotti, e Fnac.
Nel solo settore dell’abbigliamento il calo in Campania è stato del 10,5%, il peggiore in Italia (dati Federmoda – Confcommercio). Poi quando apre una nuova azienda non bisogna esultare subito. “Le nuove iscrizioni al Registro delle Imprese sono operazioni finanziarie per mascherare stati di crisi” spiega il presidente della Camera di Commercio Maurizio Maddaloni, “e troppo spesso per agevolare attività illegali, come accade per alcuni ristoranti o negozi di abbigliamento che
aprono e chiudono in poco tempo”. Ricorda il presidente Ascom, Pietro Russo: “Dal 2008 la provincia di Napoli ha perso 11 punti di Pil e 100 mila occupati, il 15% della forza lavoro. Poi ci sono tante criticità tipiche del nostro territorio: la vendita di merci contraffatte negli ultimi 5 anni ha tolto, solo in provincia di Napoli, ben 6 miliardi al circuito dell’economia legale; ed abbiamo una città a brandelli”.
Torino, dopo gli operai le librerie
Le ultime ad andarsene sono le librerie del centro di Torino. Qualche storico negozio lascerà gli spazi in cui stava da decenni: la libreria Zaniboni o la Dante Alighieri non riapriranno, mentre la Paravia si trasferirà in un quartiere meno centrale. La crisi ha colpito pure i negozi più grandi, come la Fnac che ha chiuso o la Coop che si è trasferita fuori città. Per rimanere in tema di libri, la trattoria Mama Licia, in passato frequentata dall’editore Giulio Einaudi, ha lasciato le sue cucine per gli affitti troppo alti. La situazione non cambia fuori dal centro fino alla periferia: che sia il ricco quartiere Crocetta o l’operaia Mirafiori, panetterie, piccoli alimentari, negozi d’abbigliamento e di sigarette elettroniche abbassano le serrande e i locali restano sfitti e invenduti per anni. In città, stando agli ultimi dati della Confesercenti, dall’inizio dell’anno hanno chiuso 543 attività, quasi 1.200 se si considera la provincia. Nel 2013 non era andata meglio: spariti 1.167 negozi, “con un saldo negativo di 181 esercizi in rapporto alle aperture”, stando all’Ascom e alla Camera di Commercio. È il sintomo di una crisi che è cominciata con la Fiat e i suoi operai, ha colpito il suo indotto e, a catena, i consumi e si ripercuote su tutta l’economia. A dare il colpo di grazia poi sono gli affitti sempre alti, soprattutto nella centralissima via Roma, tanto alti da soffocare anche attività economiche di lusso. Per abbattere i costi i gestori dello storico emporio alimentare Paissa hanno chiuso il locale di piazza San Carlo tenendo aperti gli altri locali più piccoli e dagli affitti meno alti in via Cernaia e in corso Alcide De Gasperi. Una libreria che chiuderà i battenti è la Dante Alighieri. Per Mimmo Fogola, che la gestisce insieme al fratello Nanni, il problema non è l’affitto: “La concorrenza delle grandi librerie: sebbene la legge imponga sconti fino al 15 per cento, loro arrivano al 25 per cento semplicemente chiamandole ‘promozioni’”.
di Alessandro Ferrucci, Luigi Franco, Vincenzo Iurillo, Andrea Giambartolomei e Ferruccio Sansa
Il Fatto Quotidiano, Lunedì 23 settembre 2014

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