lunedì 22 giugno 2015

Addio, mia pessima Italia.


“Addio, mia pessima Italia. Porto l’azienda in Austria”
L’imprenditore Francesco Biasion, ex fabbro, ora ha 6 stabilimenti. Costretto a dirottare altrove il maglio più grande del mondo: “In Carinzia mi hanno accolto con banda e majorettes. Il Belpaese è perduto”.

Ce l’aveva messa tutta, l’imprenditore veneto Francesco Biasion, 76 anni, per farsi piacere l’Italia. Bastonalo oggi, bastonalo domani, alla fine s’è stufato e ha preferito traslocare in Austria. Prima, però, ha reagito con un micidiale colpo di maglio, che ha spiaccicato Stato, Regione, Provincia di Vicenza, Comune di Mussolente e, discendendo per li rami, un po’ tutte le autorità e le burocrazie costituite: magistratura, Agenzia delle entrate, Asl, carabinieri, vigili urbani, Confindustria, sindacati.

Immagine per nulla figurata, giacché per mandare in mona – come usa dire da queste parti – tanta bella gente, il Biasion, ex fabbro con la quinta elementare che oggi stipendia 1.000 dipendenti («ma ero arrivato a mantenerne 1.200») e fattura ogni anno 157 milioni di euro in Europa e 100 milioni di dollari negli Stati Uniti, ha usato per davvero un maglio. Il più grande esistente al mondo. Un mostro del peso di 1.500 tonnellate che, quando cala sul pezzo di metallo incandescente, esercita una pressione pari a 55 milioni di chili. «Dovevo installarlo qui a Mussolente, invece l’ho dirottato alla Boltex di Houston, uno dei due stabilimenti che ho nel Texas. Risultato: persi 500 posti di lavoro che il maglio poteva creare in Veneto, più un migliaio nell’indotto. I politici? Non hanno fatto una piega. Manco una telefonata per dirmi: “Ma Biasion, cosa fa? È impazzito?”».

Fosse vera questa ipotesi, si tratterebbe di un caso di lucida follia, visto che, subito dopo, il nostro ha spostato a Lincoln, in Inghilterra, anche una pressa a vite da 32.000 tonnellate di potenza per lo stampaggio a caldo dell’acciaio, alta 14 metri e pesante 17.500 quintali, il primo impianto del genere nel Regno Unito, un investimento da 100 milioni di euro. E non è finita: nello stabilimento di Mussolente tiene ferme altre due presse da 8.000 tonnellate ciascuna, prodotte dalla Sumitomo e giunte cinque anni fa dal Giappone, 17 milioni di euro chiusi nel cellofan coperto di polvere. «Dice che così ci rimetto? Me ne ciavo! Sono pieno di robe che non adopero. Se avessi comprato azioni della Banca popolare di Vicenza, ci smenavo di più. Intanto le due presse restano lì. Da qualche parte le manderò. Ma qui non le monto di sicuro. Basta! Con questo Paese ho chiuso. Mi trattano come un delinquente? E io smetto d’investire in Italia».

Coerente con l’enunciato, Biasion è andato a costruire una fabbrica ad Althofen, pittoresca cittadina di 4.600 anime nel cuore della Carinzia, 345 chilometri da Mussolente, «tre ore e mezzo di auto», dov’è stato accolto con fanfara, majorettes e jodler cantati a squarciagola. «L’abbiamo tirata su in meno di 10 mesi. Da dicembre è in produzione, per il momento con 50 operai, tutti austriaci. A breve conto di arrivare almeno a 300. Invece a Mussolente, dove ne ho 450, scenderò a 200. Ma senza spargimenti di sangue. A mano a mano che i dipendenti vanno in pensione, non li rimpiazzo. Ribadisco il concetto: con il Belpaese, anzi brutto, ho chiuso per sempre».

Bifrangi, la creatura di Biasion, era, e in parte resta, un fiore all’occhiello del made in Italy: «Quelli come noi chiudono un po’ in tutto il mondo. Si aprono spazi enormi. Mai visti così tanti ordinativi, pensi che paradosso». L’azienda vicentina è specializzata nello stampaggio a caldo degli acciai: flange, ingranaggi, raccordi. Non sapevo che cosa fossero le flange fino a quando non sono entrato nella fucina di Mussolente, fra lapilli di fuoco che ti avvampano il viso – 1.250 gradi di temperatura – e colpi di pressa che ti rimescolano le budella. Trattasi di piastre a forma di anello indispensabili per unire fra loro le condutture di qualsiasi tipo (acquedotti, oleodotti, gasdotti, collettori, fognature, termosifoni, caldaie, condizionatori), motivo per cui Biasion ama definirsi «un industriale quasi del tubo». La Bifrangi fornisce flange e congegni per ruote, trasmissione e cambio dei veicoli. Ecco perché fra i suoi clienti, accanto a multinazionali come la nipponica Nsk e la svedese Skf, vi sono Toyota, Volkswagen, Audi, Bmw e i colossi delle macchine per movimento terra e agricoltura, da Caterpillar a John Deere. Lavora ogni anno 205.000 tonnellate di acciaio. Oltre alla sede storica di Mussolente, a quella neonata di Althofen, alle due unità produttive di Houston e allo stabilimento inglese di Lincoln, conta una sesta fabbrica a Sheffield, sempre in Gran Bretagna, l’ex capitale della siderurgia che ha dato al cinema i metalmeccanici disoccupati improvvisatisi spogliarellisti in The full monty. E sta trattando l’acquisto di una settima unità produttiva in Spagna, a Tudela.

Perché s’è fermato alla quinta elementare?

«Non mi piaceva studiare. A 6 anni ero già alla forgia con mio padre. Sa, stiamo parlando del tempo di guerra. Martelli, tenaglie e zappe mica si compravano al Bricocenter. Li faceva il fabbro».

La sua fuga dall’Italia è stata originata dal maglio, ho capito bene?

«Benissimo. Nel 2006 dico al sindaco di Mussolente: vorrei farmi costruire il più grande maglio mai realizzato sulla faccia del pianeta. Lui non mi pone obiezioni. Così io, stupido, lo ordino alla tedesca Müller Weingarten, che ha sede vicino al lago di Costanza. Un bestione per lo stampaggio in acciaio di componenti aeronautici, visto che in Inghilterra ho avviato un centro di ricerche con la Boeing. Pezzi da 50 quintali, lunghi fino a 4 metri, che il maglio sagoma riducendoli a frittelle».

Ostrega.

«Eh, caro mio, ma per mettere giù un coso del genere servono fondamenta profonde 16 metri e larghe altrettanto. Un’opera d’arte. Faccio preparare il progetto. Regione e Provincia danno l’ok. Positivo anche il Via, valutazione d’impatto ambientale. A quel punto il Comune mi traccia per dispetto una strada proprio nell’area del nuovo capannone per il maglio».

Ma tu guarda.


«Protesto. Litigo. Alla fine, bontà loro, la strada non serve più, la tolgono. E mi concedono l’ampliamento dell’area industriale. Però il sindaco si accorge che il capannone è troppo alto: gli uccelli potrebbero sbatterci contro».

Sta scherzando?

«Mai stato più serio. Di conseguenza non mi firma la licenza edilizia. Due anni e mezzo persi a battagliare. Nel frattempo gli oneri di urbanizzazione salgono da 500.000 a 800.000 euro. Obtorto collo, accetto di pagare. Mi concedono una deroga per l’inizio dei lavori. Parto con gli scavi. Spendo milioni. Ma ancora non è finita. “In cambio devi farci il municipio nuovo”, mi ordinano. Non ci penso nemmeno! Allora rivoltano la frittata: “Ci firmi una convenzione senza riserve”».

Vale a dire?

«Dovevo accettare a priori eventuali modifiche del progetto, e relativi oneri, decise dal Comune in corso d’opera».

Una follia.

«Tenga conto che far arrivare il maglio dalla Germania a Mussolente mi costava 2,5 milioni di euro, perché, non essendoci strade adatte per un trasporto eccezionale di quelle dimensioni, bisognava fare il giro dell’oca per mezza Europa e poi raggiungere Venezia con una nave. E se, una volta consegnato, me l’avessero bloccato? Ho alzato il telefono. G’ho ciamà i me tosi a Houston. Ci conosciamo da 35 anni».

E che cosa gli ha detto?

«Di provare a chiedere allo Stato del Texas e alla Contea di Harris se ci sarebbero stati problemi nel caso in cui avessi deciso di collocare il maglio alla Boltex. La risposta è giunta in giornata: “A casa vostra fate quello che vi pare”. Il maglio l’ho mandato là. Dopo un anno era già funzionante».

Non capisco perché ora tiene impacchettate due mega presse già pagate alla Sumitomo.

«Senta, la Bifrangi è una società per azioni che non ha mai distribuito dividendi. Versate le tasse – quest’anno 5 milioni – ciò che resta, e le assicuro che è tanto ma proprio tanto tanto, l’ho sempre investito in nuovi macchinari. Un giorno chiedo la mia fedina penale al casellario giudiziale». (Tira fuori due fotocopie da un cassetto della scrivania). «Vede? Denunce, multe, processi per questo e per quello, lesioni, persino omicidio colposo. Un pendaglio da forca. Vorrei sapere in quale altra officina di simili dimensioni non sia mai capitato un incidente sul lavoro».

Mi sfugge il motivo per cui in Italia tutti ce l’avrebbero con lei.

«Dipenderà dal fatto che non ho mai unto le ruote a nessuno? Non so, me lo dica lei. Decido di costruire gli alloggi per i miei 50 dipendenti africani privi di casa, e mi stoppano il progetto. Pulisco qui fuori un prato pieno di sterpaglie e metto a dimora un po’ di piante con tre panchine, affinché d’estate possano trovarvi riparo dal sole i poveri autisti dei Tir che arrivano da tutto il mondo, e mi sequestrano l’area accusandomi di costruzione abusiva. Posiziono una recinzione metallica e m’ingiungono di arretrarla di 3 metri rispetto al fronte strada, mentre ai vicini è concesso stare a 3 centimetri, così finisco addirittura nelle grinfie dell’Agenzia delle entrate. Chiedo di ristrutturare la casa-fucina in cui sono nato, che cadeva a pezzi, però mi negano la licenza. Allora sa che cos’ho fatto? L’ho rasa al suolo, lasciando che ci crescano sopra le erbacce. Un bel presepio, proprio nel centro di Mussolente. La vergogna del paese».

E se n’è andato in Austria.

«All’arrivo ad Althofen ho trovato ad attendermi sindaco e vicesindaco. Mi hanno mostrato 5-6 lottizzazioni industriali, una più bella dell’altra. L’ultima sembrava una località di villeggiatura. Ho chiesto: quanto viene? “Già urbanizzata, 15 euro al metro quadrato”. Qui a Mussolente me ne chiedevano 300. Ho subito stretto la mano al sindaco: affare fatto. Non solo. Mi hanno regalato 3,5 milioni di euro a fondo perduto per costruire uno stabilimento che ne costa 33. Il governo austriaco mi ha concesso un mutuo settennale di 7,5 milioni al tasso fisso dello 0,5 per cento. E in più il sindaco me g’ha portà quatro piègore».

Quattro pecore?

«Sì, in dono, oltre ad alcuni innesti di meli rarissimi. Le tengo nella fattoria qui accanto, insieme con 30 vacche, 40 maiali, conigli, galline, oche. Mi hanno vietato di dichiararmi azienda agricola. Eppure produco in proprio la carne, l’olio extravergine d’oliva e il vino per la mensa aziendale, dove serviamo i pasti gratis in quattro turni, perché la fabbrica funziona 24 ore su 24. Cuociamo persino panettoni e colombe pasquali da regalare ai dipendenti. I quali si portano a casa anche frutta e verdura del podere».

La Bifrangi lascerà Mussolente?

«La questione è allo studio. Perché dovrei offrire un posto di lavoro agli italiani? Per prendermi scarpate nel culo ed essere trattato da criminale? Vadano a farselo dare da Landini e dalla Camusso! Ho licenziato per giusta causa quattro fancazzisti che si rifiutavano di svolgere alcune mansioni. Il giudice del lavoro mi ha ordinato di riassumerli. Ho dovuto pagargli pure i danni morali».

Non è che nel resto del mondo non esistano giudici e sindacati.

«Momento! A Lincoln e a Sheffield ho avuto a che fare con lo zoccolo duro dei metalmeccanici britannici. Da 500 che erano, ne ho mandati lo stesso a casa 250 che non si comportavano bene. In Austria un dipendente è licenziabile persino in malattia, se non ti serve più».

Non mi pare una conquista sociale.

«Infatti io mica lo licenzio. Ma provi a chiedersi perché posso conservargli il posto. Benché il suo costo orario sia uguale a quello di un operaio italiano, 25 euro l’ora, in Austria pago solo il 25 per cento di tasse. Tutto compreso. No Ici, no Imu, no Ires, no Irap, no Tasi».

Ma i crucchi non guardano di malocchio noi italiani?

«Al contrario, ti fanno sentire un padreterno. Al ristorante non riesco mai a pagare il conto: il pranzo me lo offrono loro».

Perché non sta mai fermo? Non potrebbe concedersi un po’ di riposo, alla sua età?

«È un vizio. Lo devo ai clienti. Guardi che cosa mi ha portato ieri un mio committente turco, assaggi». (Apre una lussuosa confezione di lokum prodotti da Bereket, pasticceria fondata nel 1923 a Istanbul, con l’immagine della Moschea Blu sulla scatola di seta).

Pensa che il premier Matteo Renzi riesca a raddrizzare l’Italia?

«Tante ciacole e basta. Picchia i più deboli e lascia stare i più forti. Non c’è speranza per l’Italia, dia retta a me. Puoi solo andartene».


FONTE:
http://www.ilgiornale.it/news/politica/addio-mia-pessima-italia-porto-lazienda-austria-1142967.html

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