Il declino Usa, la Russia e la catastrofe atomica


Di Francesco Sylos Labini

Domani, alla Fondazione Di Vittorio di Roma (e in diretta streaming sul loro canale YouTube), si terrà la lectio di Jeffrey Sachs Geopolitics of a changing World: how to avoid Thucydides’s trap. Anticipiamo qui uno stralcio dell’intervento di Francesco Sylos Labini, tra gli ospiti dell’incontro.

Jeffrey Sachs dall’inizio della guerra in Ucraina è stato un riferimento imprescindibile per capirne le ragioni. Sachs si trovava nella sala del Cremlino quando Eltsin firmò il decreto di dissoluzione dell’Urss nel 1991, il Big Bang della nostra epoca. Da quel momento, invece che alla “fine della storia”, abbiamo assistito all’apertura del vaso di Pandora da cui sono fuoriusciti i mostri che popolano l’incubo attuale.

Quello è stato uno spartiacque chiave della nostra epoca: nel 1991 “l’orologio della fine del mondo” segnava 17 minuti alla mezzanotte e nel 2024 ci separano solo 90 secondi dall’apocalisse atomica. Come e perché questo capitale di pace che abbiamo ereditato nel 1991 è andato disperso è la storia dell’incubo in cui siamo immersi ora. Per la Russia il 1991 ha segnato l’inizio di una tragedia che è durata dieci anni durante i quali il Pil per persona è diminuito del 40% per poi risalire con l’avvento di Putin al potere (oggi è del 30% maggiore di quello del ’91). In Occidente è invece iniziata una crescita consistente del numero di miliardari e della loro ricchezza: oggi le ottantacinque persone più ricche del mondo hanno la stessa ricchezza del restante 99% della popolazione del pianeta. Inoltre, dagli anni 90 in poi si è assistito all’ascesa della Cina. Lì il Pil per persona, dal 1990 a oggi, è cresciuto di 13 volte e il Pil totale ha ora superato quello degli Usa in termini di parità di potere di acquisto. Inoltre, il combinato dei Pil dei Paesi cosiddetti “Brics” ha superato quello dei Paesi del G7, che nel 1991 erano i più industrializzati. I Brics hanno oggi il 45% della popolazione del mondo, producono il 40% del petrolio e il loro contributo alla crescita economica mondiale è del 44% contro il 20% del G7.

L’ascesa di una grande potenza industriale come la Cina sarebbe potuta entrare in rotta di collisione con l’unica potenza egemone rimasta dal 1991, gli Usa: questa è la tesi di John Mearsheimer secondo cui le grandi potenze lottano per essere egemoni e ciò comporta una perpetua competizione. In realtà questa prospettiva è adatta a interpretare la politica estera americana, ma forse meno adatta a spiegare la politica estera cinese. Ad esempio, gli Stati Uniti hanno 750 basi militari all’estero, in 80 Paesi con 170 mila soldati, mentre la Cina ha una sola base militare fuori dal suo territorio a Gibuti; negli ultimi quarant’anni la Cina non è mai stata coinvolta in alcun conflitto mentre gli Usa in più di dieci. Dagli anni 90 inoltre la temperatura globale è cresciuta sempre più velocemente. Questo poiché la Cina ha iniziato a emettere gas serra, di cui oggi è la maggiore produttrice, ma il primato di emissione per persona spetta ancora agli Usa, che hanno emesso anche, nella storia, il doppio di gas serra della Cina, pur avendo un quarto della sua popolazione. Ed è assodato che più si consumano combustibili fossili più aumenta la temperatura. Quando i Paesi si sviluppano aumenta il loro Pil pro capite e l’emissione, sempre per persona, di gas serra: questo pone un problema di sostenibilità globale, di giustizia climatica e di limiti dello sviluppo per via delle risorse finite. Oggi, la quota della manifattura cinese è pari a quella degli Usa e dell’Europa messe assieme; la Cina è diventata il maggiore esportatore di automobili, maggior produttore di panelli solari e ha un consumo di energia e una produzione di acciaio in continua crescita. Negli ultimi trent’anni sono state costruite intere città, è stata sviluppata una gigantesca rete di treni ad alta velocità e per ogni nave costruita in America in Cina ne vengono costruite 250. Soprattutto la Cina è diventata leader nei brevetti in quasi tutti i settori tecnologicamente avanzati, grazie alla crescente spesa in ricerca e sviluppo. Inoltre, è in testa per gli articoli scientifici, nelle classifiche delle istituzioni accademiche, per la quota di laureati nelle materie tecnico-scientifiche e per l’esportazione di prodotti ad alta tecnologia. Questa situazione pone un problema nuovo agli Usa perché stanno perdendo il ruolo egemonico che hanno avuto dal crollo dell’Urss. Nel 1948 gli Usa avevano il 50% della ricchezza e solo il 6% della popolazione: il loro scopo è sempre stato quello di mantenere questa disparità. Questa logica permette di individuare i motivi delle guerre in corso: la Russia con le sue ricchezze naturali, la Cina potenza tecnologica e manifatturiera, il Medio Oriente con le enormi risorse energetiche. Come risultato, vediamo un assurdo ricorso all’armamento e l’aumento della mentalità di guerra e delle spese militari.

Gli anni 90 hanno anche segnato l’accelerazione nella crescita del debito pubblico americano e negli interessi: nel 2023 il debito è arrivato a 35 trilioni di dollari e gli interessi a un trilione. Come questo sia sostenibile è il problema che riguarda “l’esorbitante privilegio” del dollaro come valuta di riserva e come moneta per gli scambi internazionali. Le tensioni attuali sono dunque dovute alla lotta per il controllo delle risorse, della scienza, della tecnologia e della moneta. Ci chiediamo allora dove sia finito il sogno americano; dov’è l’America che doveva essere la città luminosa sopra la collina? Dove è finita l’età della ragione che sembrava guidarci da oltre due secoli? E soprattutto: cosa dobbiamo fare per evitare la catastrofe?




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