Entronauti

Scanziani si erge sull’Athos dopo il viaggio in India, lo scontro con l’Europa, ciclope scatenato, famelico. “Non mi riusciva più di leggere i giornali, d’ascoltare la radio, di guardare la televisione, d’assistere a uno spettacolo… Città di paure: atomica, insurrezione, cancro, scontri, assassini, tutto illustrato, ripetuto giorno su giorno, fino a ridurti atterrito tra atterriti. Città di violenze: automobili aggressive, pedoni imprecatori, lotte a coltello per un posto, odii implacabili fra individui e gruppi e, per svagarsi, la sparatoria omicida del cinema o l’urlo atroce dello stadio. Città di furori satirici: nudità femminili da per tutto, donne perpetuamente in fregola, uomini in permanente libidine, inversioni esibite, manie propagandate, sesso onnipresente onnipotente obnubilante. In tale cosmo di vibrazioni frenetiche, ho perduto ogni mio bene: la serenità, la presenza, la gioia”.

*

Come il pellegrino russo, spoglio di tutto, custodendo l’inquietudine in un’ampolla, Scanziani scala l’Athos. Un uomo, Macario, vive su un albero, “non sempre scende, non sempre parla, spesso canta, talvolta scompare. Le bestie gli stanno attorno, senza timori”. Prega incessantemente, pratica la contemplazione, non mendica, ha fatto l’Eden del suo corpo, purezza della corruzione. Poi incontra l’altro, Nicodemo, che ha una cella a strapiombo sul mare, ci giunge con una carrucola. Per mangiare si affida agli elementi, a ciò che gli offre la provvidenza. “Gli domando: ‘Aspetti la morte?’. ‘La morte? La morte non c’è’”. Non c’è altro da dire, eccola la rivelazione ultima. “Alzo lo sguardo verso una stella. Forse anch’essa è morta, da milioni di anni. Ma la sua luce no, cammina eternamente nello spazio e il nostro occhio l’incontra, viva. La stella non è morta e nulla muore: ciò che muore, cade nella vita”. Piero Scanziani


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