RAMBO
“In Vietnam ero responsabile per apparecchiature da milioni di dollari, qui non riesco nemmeno a trovare un lavoro come posteggiatore”. Stasera Rete4 trasmetterà per l’ennesima volta – siamo ormai nell’ordine del centinaio di repliche, credo – “Rambo” e questa è la frase di quel film che non solo più mi ha colpito ma che, a mio avviso, lo caratterizza. Certo, è un’americanata. La caduta dalla rupe con conseguente ricucitura a freddo del braccio è machismo reaganiano allo stato puro ma quel film, paradossalmente, trent’anni prima ha capito la condizione dell’uomo attuale. Di più, è la versione bellicista di “Un giorno di ordinaria follia”: Rambo, come il Bill Foster interpretato da Michael Douglas, è semplicemente un uomo che non solo non si riconosce più nel mondo in cui vive ma che, soprattutto, non ce la fa più.
E’ esasperato. E’ arrivato al limite della sopportazione. Dorme male. Campa di paranoie. Odia il suo lavoro, quando ne ha uno. Esce sempre meno. E’ sempre più misantropo. Intollerante. Razzista, per certi canoni narrativi molto in voga oggi. In una delle rare volte in cui disse qualcosa di intelligente, Matteo Renzi per attaccare i talk-show che a loro volta attaccavano il suo governo, pensò di umiliare loro e i loro conduttori dicendo che facevano meno audience dell’ennesima replica di “Rambo”. Aveva ragione. Il problema è che la ristrettezza mentale di Renzi riconduceva quel dato di fatto a un qualcosa di unicamente negativo, di sarcastico, di paradossalmente umiliante e sminuente: forse, chiedersi perché anno dopo anno, “Rambo” continua a essere visto e rivisto, potrebbe fungere da cartina di tornasole, invece che da battuta ironica. C’è solo un altro film, a mio avviso, che ottenga il medesimo risultato di successo senza tempo, “Una poltrona per due”.
In quel caso, siamo all’effetto contrario, visto che va in onda sempre e comunque il 24 dicembre: lo spirito natalizio che per una notte ti fa vedere le cose in un altro modo, quell’illusione un po’ disperata da ubriaco che gli inglesi chiamano il “last hurrah” e che ti fa essere Billy Ray Valentine e ti garantisce una valigetta con l’anteprima sul prezzo del succo d’arancia congelato, supremo atto di giustizia all’arroganza elitaria e truffatrice dei fratelli Duke e a troppi anni sulla strada a congelarsi le chiappe, fingendosi invalido, per sbarcare il lunario.
“Rambo” è altro, invece. “Rambo” è il tappabuchi perfetto, quando una serata non ha nulla da proporre, sia agosto o fine ottobre, ecco che i geni della programmazione lo tirano fuori. E sanno che faranno centro. I poveri Giannini e Floris ne sanno qualcosa. E non perché al 90% di chi lo guarda freghi un cazzo del militarismo ma perché il primo “Rambo” è un film tremendamente profetico sull’alienazione sociale e sulla distruzione di un sistema economico che l’Occidente stava per cominciare a costruire, pensando invece di essere alle prese con le magnifiche sorti e progressive di quella che sarà la grade rivoluzione in fieri: la globalizzazione post-Muro. Il Vietnam dei morti e del sangue per “Rambo” è un ricordo protettivo nel suo orrore conradiano, perché dentro quell’inferno sopravvivevano i valori reali e le amicizie vere: spazzate via, chi dalla guerra, chi dal cancro, chi da alcol e droga per riuscire a resistere in un mondo senza più riferimenti (ring any bell?).
“Rambo” ingaggia una guerra di trincea, partendo da un casus belli banale: uno sceriffo troppo zelante che non vuole vagabondi nella sua città, fosse anche solo per mangiare un boccone di passaggio. Vagabondi reduci, oltretutto: è quella bandiera sul giubbotto a farlo inquadrare subito come pericolo. E’ la logica del corpo estraneo ma non quello esogeno che arriva dai meandri dei nostri sensi di colpi, bensì quello che arriva dal nostro passato che quei sensi di colpi li ha generati: John Rambo, piangendo alla ricetrasmittente con il vecchio comandante, grida la sua rabbia per quella gente che al suo ritorno, in aeroporto, chiamava lui e i suoi commilitoni assassini, sputando loro in faccia e rinfacciandogli il napalm sui villaggi di civili. E chi oggi rivendica diritti , magari del lavoro, non più contemplati dai nuovi modelli di crescita, cosa è, se non un reduce che grida la sua richiesta minima, la sua pretenziosa e quasi insolente preghiera di dignità?
E quale concetto viene opposto a chi rivendica la sua identità rispetto all’altro che arriva in massa, disordinatamente e senza rispetto del passato di chi lo accoglie? Il senso di colpa per lo sfruttamento dell’Africa, per la vendita di armi, per le trivellazioni della grandi mayor petrolifere. Rambo è la cattiva coscienza di un Paese, lo stesso che vide protestare contro la guerra in Vietnam una generazione di hippies, a Barkeley come altrove, che poi è diventata – e continua ad esserlo – classe dirigente: in politica, nela cultura, nel giornalismo, nei cinema, nel teatro, nella musica. La stessa che continua a fare guerre in nome del modello di sviluppo che vorrebbe conciliare il fair trade con l’iPhone prodotto in Vietnam e venduto a 1.000 dollari ma che, contestualmente, si nasconde dietro le battaglie per i diritti civili e demonizza Donald Trump? La colpa è di Rambo, non di chi lo manda a combattere. E dei motivi per cui lo fa.
“Rambo” non è un film di guerra. Nè un film sulla guerra. “Rambo” è il segno dei tempi che stavano cambiando: non a caso, il produttore Ted Kotcheff, poi si imbarcò nei sequel sempre più patetici non solo per i risultati del botteghino ma per espressa “pressione” del Pentagono, il quale riteneva il primo “Rambo” un film sostanzialmente anti-americano al pari della canzone di Bruce Springsteen, anch’essa dedicata al Vietnam e anch’essa successo mondiale, “Born in the USA”. E allora via con i russi cattivi in Afghanistan, i valorosi mujaheddin e i vietnamiti infami che detenevano ancora prigionieri in guerra dopo decenni: cinema pieni e produzioni miliardarie ma, soprattutto, atti purificatori rispetto a quel primo sgarbo politicamente scorretto.
L’America che rinnega i suoi figli, dopo averli spediti a fare la guerra dall’altra parte del mondo per interessi precisi che non erano certo la salvezza del globo dal comunismo. E, infatti, in “Rambo” – a differenza di altri flm di successo sul Vietnam – le parole comunismo, Unione Sovietica, russi, non compaiono mai. John Rambo la sua guerra la sta combattendo con sé stesso, i suoi fantasmi e, soprattutto, la sua ragione di vita: quel Paese a cui ha dato tutto, amandolo e che ora lo rinnega. Anzi, peggio: finge che non esista. E allora, portato oltre limite, torna a fare l’unica cosa che sa fare, l’unica cosa per cui è stato addestrato e ritenuto degno di rispetto e riconoscenza: combattere contro quello stesso Stato-società che ha difeso, anche massacrando civili inermi in una guerra d’aggressione.
E vince. Salvo poi arrendersi, quando il muro diventa troppo alto da scalare. E, soprattutto, senza fare proseliti. O cercarli. John Rambo è solo e solo vuole restare: è la sua guerra, non una rivoluzione. E questo non a caso. “Rambo” è del 1982, “Un giorno di ordinaria follia” del 1993: undici anni ma, a riguardare indietro come cambiò il mondo in quel lasso di tempo, un’intera era geologica. Ma, alla fine, il messaggio è lo stesso: è giusto che tu ti ribelli, è giusto che vai fuori di testa. Ma da solo. Sii esempio di follia rivendicativa e giustiziera, sii idolo e riferimento, icona ed eroe nei giorni in cui tutto è buio: ma da solo, nel tuo disperato e disperante mondo di isolamento e paranoia. C’è un seme di rivolta in quei due film, altrimenti la gente non ci si sarebbe ritrovata così tanto, amandolo così tanto. Ma c’è anche un messaggio di redenzione nell’oblio solitario della resa al sistema. Io riguarderò “Rambo” stasera, per l’ennesima volta. E per l’ennesima volta con occhi nuovi.
Perché, piaccia o meno, quello non è un film di guerra. O sulla guerra. E’ il traslato di un sistema che necessita di dire in faccia alle sue pedine che sono tali, perché soltanto facendole arrabbiare e mostrando loro le conseguenze dei loro gesti di ribellione, può domarle. E perpetuarsi. E temo che la stagione globale in cui milioni di potenziali “Rambo” disoccupati o sottopagati o drogati di oppiacei, con la casa pignorata e un divorzio sulle spalle, vagheranno per il mondo in cerca di solitaria e disperata riscossa da giorno del giudizio, sia cominciata: uomini soli all’assalto della fortezza. Quindi, destinati alla sconfitta. O, forse, all’avanguardia, se sapranno attendere e non perdere la testa. Perché il sistema appare sempre più come lo sceriffo di Rambo: spaventato. E consapevole di esserlo. Per questo alza la voce e mostra i muscoli.
https://www.rischiocalcolato.it/2017/10/stasera-riguardero-lennesima-volta-rambo-perche-ad-replica-lo-sceriffo-meno-paura.html
http://altrarealta.blogspot.it/
E’ esasperato. E’ arrivato al limite della sopportazione. Dorme male. Campa di paranoie. Odia il suo lavoro, quando ne ha uno. Esce sempre meno. E’ sempre più misantropo. Intollerante. Razzista, per certi canoni narrativi molto in voga oggi. In una delle rare volte in cui disse qualcosa di intelligente, Matteo Renzi per attaccare i talk-show che a loro volta attaccavano il suo governo, pensò di umiliare loro e i loro conduttori dicendo che facevano meno audience dell’ennesima replica di “Rambo”. Aveva ragione. Il problema è che la ristrettezza mentale di Renzi riconduceva quel dato di fatto a un qualcosa di unicamente negativo, di sarcastico, di paradossalmente umiliante e sminuente: forse, chiedersi perché anno dopo anno, “Rambo” continua a essere visto e rivisto, potrebbe fungere da cartina di tornasole, invece che da battuta ironica. C’è solo un altro film, a mio avviso, che ottenga il medesimo risultato di successo senza tempo, “Una poltrona per due”.
In quel caso, siamo all’effetto contrario, visto che va in onda sempre e comunque il 24 dicembre: lo spirito natalizio che per una notte ti fa vedere le cose in un altro modo, quell’illusione un po’ disperata da ubriaco che gli inglesi chiamano il “last hurrah” e che ti fa essere Billy Ray Valentine e ti garantisce una valigetta con l’anteprima sul prezzo del succo d’arancia congelato, supremo atto di giustizia all’arroganza elitaria e truffatrice dei fratelli Duke e a troppi anni sulla strada a congelarsi le chiappe, fingendosi invalido, per sbarcare il lunario.
“Rambo” è altro, invece. “Rambo” è il tappabuchi perfetto, quando una serata non ha nulla da proporre, sia agosto o fine ottobre, ecco che i geni della programmazione lo tirano fuori. E sanno che faranno centro. I poveri Giannini e Floris ne sanno qualcosa. E non perché al 90% di chi lo guarda freghi un cazzo del militarismo ma perché il primo “Rambo” è un film tremendamente profetico sull’alienazione sociale e sulla distruzione di un sistema economico che l’Occidente stava per cominciare a costruire, pensando invece di essere alle prese con le magnifiche sorti e progressive di quella che sarà la grade rivoluzione in fieri: la globalizzazione post-Muro. Il Vietnam dei morti e del sangue per “Rambo” è un ricordo protettivo nel suo orrore conradiano, perché dentro quell’inferno sopravvivevano i valori reali e le amicizie vere: spazzate via, chi dalla guerra, chi dal cancro, chi da alcol e droga per riuscire a resistere in un mondo senza più riferimenti (ring any bell?).
“Rambo” ingaggia una guerra di trincea, partendo da un casus belli banale: uno sceriffo troppo zelante che non vuole vagabondi nella sua città, fosse anche solo per mangiare un boccone di passaggio. Vagabondi reduci, oltretutto: è quella bandiera sul giubbotto a farlo inquadrare subito come pericolo. E’ la logica del corpo estraneo ma non quello esogeno che arriva dai meandri dei nostri sensi di colpi, bensì quello che arriva dal nostro passato che quei sensi di colpi li ha generati: John Rambo, piangendo alla ricetrasmittente con il vecchio comandante, grida la sua rabbia per quella gente che al suo ritorno, in aeroporto, chiamava lui e i suoi commilitoni assassini, sputando loro in faccia e rinfacciandogli il napalm sui villaggi di civili. E chi oggi rivendica diritti , magari del lavoro, non più contemplati dai nuovi modelli di crescita, cosa è, se non un reduce che grida la sua richiesta minima, la sua pretenziosa e quasi insolente preghiera di dignità?
E quale concetto viene opposto a chi rivendica la sua identità rispetto all’altro che arriva in massa, disordinatamente e senza rispetto del passato di chi lo accoglie? Il senso di colpa per lo sfruttamento dell’Africa, per la vendita di armi, per le trivellazioni della grandi mayor petrolifere. Rambo è la cattiva coscienza di un Paese, lo stesso che vide protestare contro la guerra in Vietnam una generazione di hippies, a Barkeley come altrove, che poi è diventata – e continua ad esserlo – classe dirigente: in politica, nela cultura, nel giornalismo, nei cinema, nel teatro, nella musica. La stessa che continua a fare guerre in nome del modello di sviluppo che vorrebbe conciliare il fair trade con l’iPhone prodotto in Vietnam e venduto a 1.000 dollari ma che, contestualmente, si nasconde dietro le battaglie per i diritti civili e demonizza Donald Trump? La colpa è di Rambo, non di chi lo manda a combattere. E dei motivi per cui lo fa.
“Rambo” non è un film di guerra. Nè un film sulla guerra. “Rambo” è il segno dei tempi che stavano cambiando: non a caso, il produttore Ted Kotcheff, poi si imbarcò nei sequel sempre più patetici non solo per i risultati del botteghino ma per espressa “pressione” del Pentagono, il quale riteneva il primo “Rambo” un film sostanzialmente anti-americano al pari della canzone di Bruce Springsteen, anch’essa dedicata al Vietnam e anch’essa successo mondiale, “Born in the USA”. E allora via con i russi cattivi in Afghanistan, i valorosi mujaheddin e i vietnamiti infami che detenevano ancora prigionieri in guerra dopo decenni: cinema pieni e produzioni miliardarie ma, soprattutto, atti purificatori rispetto a quel primo sgarbo politicamente scorretto.
L’America che rinnega i suoi figli, dopo averli spediti a fare la guerra dall’altra parte del mondo per interessi precisi che non erano certo la salvezza del globo dal comunismo. E, infatti, in “Rambo” – a differenza di altri flm di successo sul Vietnam – le parole comunismo, Unione Sovietica, russi, non compaiono mai. John Rambo la sua guerra la sta combattendo con sé stesso, i suoi fantasmi e, soprattutto, la sua ragione di vita: quel Paese a cui ha dato tutto, amandolo e che ora lo rinnega. Anzi, peggio: finge che non esista. E allora, portato oltre limite, torna a fare l’unica cosa che sa fare, l’unica cosa per cui è stato addestrato e ritenuto degno di rispetto e riconoscenza: combattere contro quello stesso Stato-società che ha difeso, anche massacrando civili inermi in una guerra d’aggressione.
E vince. Salvo poi arrendersi, quando il muro diventa troppo alto da scalare. E, soprattutto, senza fare proseliti. O cercarli. John Rambo è solo e solo vuole restare: è la sua guerra, non una rivoluzione. E questo non a caso. “Rambo” è del 1982, “Un giorno di ordinaria follia” del 1993: undici anni ma, a riguardare indietro come cambiò il mondo in quel lasso di tempo, un’intera era geologica. Ma, alla fine, il messaggio è lo stesso: è giusto che tu ti ribelli, è giusto che vai fuori di testa. Ma da solo. Sii esempio di follia rivendicativa e giustiziera, sii idolo e riferimento, icona ed eroe nei giorni in cui tutto è buio: ma da solo, nel tuo disperato e disperante mondo di isolamento e paranoia. C’è un seme di rivolta in quei due film, altrimenti la gente non ci si sarebbe ritrovata così tanto, amandolo così tanto. Ma c’è anche un messaggio di redenzione nell’oblio solitario della resa al sistema. Io riguarderò “Rambo” stasera, per l’ennesima volta. E per l’ennesima volta con occhi nuovi.
Perché, piaccia o meno, quello non è un film di guerra. O sulla guerra. E’ il traslato di un sistema che necessita di dire in faccia alle sue pedine che sono tali, perché soltanto facendole arrabbiare e mostrando loro le conseguenze dei loro gesti di ribellione, può domarle. E perpetuarsi. E temo che la stagione globale in cui milioni di potenziali “Rambo” disoccupati o sottopagati o drogati di oppiacei, con la casa pignorata e un divorzio sulle spalle, vagheranno per il mondo in cerca di solitaria e disperata riscossa da giorno del giudizio, sia cominciata: uomini soli all’assalto della fortezza. Quindi, destinati alla sconfitta. O, forse, all’avanguardia, se sapranno attendere e non perdere la testa. Perché il sistema appare sempre più come lo sceriffo di Rambo: spaventato. E consapevole di esserlo. Per questo alza la voce e mostra i muscoli.
https://www.rischiocalcolato.it/2017/10/stasera-riguardero-lennesima-volta-rambo-perche-ad-replica-lo-sceriffo-meno-paura.html
http://altrarealta.blogspot.it/
Commenti
Posta un commento