mercoledì 4 marzo 2015

POCHE PAROLE VAGHE. GHIACCIO NELLE OSSA ANCORA OGGI.


Il bar, bè, chiamarlo bar era molto, gestito da un portoghese che poteva uccidere per un Rolex, ne sono certo, birra fetida, cibo da guardare e non toccare, il bar dicevo stava in un sobborgo di Johannesburg ed era il ritrovo dei reporters stranieri e dei fotografi di guerra cocainomani. L’anno è il 1994, guerra civile in Sudafrica, le elezioni di Mandela a presidente in pericolo di saltare, ogni giorno morti per le strade, stragi, sangue, pallottole che volavano. Il celeberrimo episodio del Kaffir Shooting pic-nic in un Bantustan (significa pic nic dopo la caccia al negro, pratica decennale dei razzisti Boeri bianchi) finito all’inverso per la prima volta, con un gruppo armato dell’ANC dei neri che ha incantonato i razzisti e li ha sterminati. Io sono nel bar alle 2 di notte, siamo chiusi dentro da un cancello d’acciaio e vetri antiproiettile. Non ricordo più i nomi dei colleghi, se non quello di David Beresford del The Guardian inglese, ma ci sono inviati del Times, Le Monde, e dell’americano Newsweek. Io l'unico italiano, bè, ovvio no?
Il corrispondente di Newsweek rompe la conversazione di colpo e dice a tutti “Io domani me ne vado”. Te ne vai? Ehhhhh? Come se avesse detto: sono qui a testimoniare lo scoppio della Rivoluzione Francese (Mandela Presidente fine Apartheid), ma me ne vado prima. Il tavolo si ferma. Ricordo gli occhi azzurri di Beresford che transitano lenti dal vetro del bicchiere a sto ragazzo americano che guarda il soffitto. Te ne vai? E dove vai?
Mi ha chiamato New York, sembra che stia succedendo qualcosa in Rwanda. Vado là”.
Sembra stia succedendo qualcosa in Rwanda. Non sapevamo nulla.
Quasi un milione di morti. Ancora oggi ho il ghiaccio nelle ossa quando lo ricordo quel momento.
Continuammo con le birre fetide. Non sapevamo, non immaginavamo.
Ghiaccio nel sangue ancora oggi per me.

Paolo Barnard


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