Chi è il cittadino?

La vera battaglia non è fra est e ovest, o capitalismo e comunismo, ma fra una reale educazione e la propaganda.
Martin Buber, filosofo e pedagogista

È arrivato il momento di scandalizzare l’italietta fatta di perbenismo e politically correct. Non mi sto riferendo alla gente della strada, sulle cui capacità di comprensione io sempre confido, in quanto di norma affronta i problemi parlando in maniera schietta e onesta. Mi sto invece riferendo a giornalisti e intellettuali che hanno paura di dire in pubblico ciò che pensano... o che hanno così paura da non riuscire più nemmeno a pensarlo. Lo so, non sta bene parlare in modo onesto e senza peli sulla lingua del problema immigrazione; oggi le accuse di xenofobia e omofobia sono sempre a portata di mano del pensatore mainstream, pronte all’uso, come il cric per sollevare l’auto, che una volta era posizionato sotto il sedile, preparato per redarguire in maniera indelebile l’automobilista poco rispettoso delle precedenze. Ma, anche se è uno sporco lavoro, qualcuno lo deve pur fare. Secondo la filosofia del politically correct – il nuovo galateo del giornalismo – alla parola “immigrazione” vanno sempre associati termini come “integrazione” “tolleranza” “uguaglianza” “accoglienza” “rispetto dei diritti umani”... Ma per il cittadino della strada non è così.


D’altronde questa italietta media, fatta di “intellettuali medi”, è la stessa che si ostina a considerare l’atleta Fiona May come detentrice del record italiano di salto in lungo femminile. Anche se molti di voi non si ricorderanno nemmeno chi è, mi voglio soffermare su questo episodio perché ben rappresenta il livello di ipocrisia del giornalista italiano. La signora May è giamaicana di origine, in quanto figlia di giamaicani – una struttura muscolo/scheletrica completamente differente da quella d’una donna italiana media o d’un’inglese media –, ma essendo nata vicino a Londra, ha gareggiato per la Gran Bretagna fino al 1994, anno in cui si è innamorata d’un italiano e lo ha sposato. Da quel giorno quelli che prima erano salti inglesi, sono diventati salti italiani. Riassumendo: geneticamente e strutturalmente è una giamaicana, è nata in Inghilterra ed è stata inglese per un certo periodo, e ora è sposta a un italiano e gareggia per l’Italia. Date queste premesse, a quale titolo possiamo affermare che il record italiano adesso è 7,11 m, se nessuna atleta italiana ha mai saltato quella misura? Se la signora May si innamorava d’un turco anziché d’un italiano, adesso quella misura era il record della Turchia, non dell’Italia. Il fatto che lei si sia sposata in Italia, fa sì che noi siamo più forti della Turchia nel salto in lungo!


Lo stesso discorso vale per Magdelín Martínez Castillo, atleta cubana, che però detiene il record italiano di salto triplo perché ha sposato un italiano nel 2011!
Agli occhi di chiunque abbia un minimo di sale in zucca queste sono situazioni palesemente ridicole, eppure nessuno, per paura di essere tacciato di xenofobia, osa parlarne apertamente.



Della May si legge su wikipedia: “è tutt'oggi l'atleta italiana che più volte è salita sul podio ai campionati del mondo di atletica leggera”. L’atleta italiana? La mia non è certo una critica all’atleta in sé, che è una splendida atleta; ciò che voglio dire è che è giunto il momento di decidere chi può definirsi cittadino italiano e chi no. In altre parole: cosa vuol dire essere italiani, inglesi o nigeriani?
[detto per inciso, il vero record italiano di salto in lungo femminile appartiene alla sarda Valentina Uccheddu con 6,80 m]


La soluzione a questo problema, che è sempre più diffuso, anche se si continua a far finta che non ci sia, è che ogni atleta gareggi per se stesso e non per una nazione di appartenenza, se vogliamo evitare che si verifichino situazioni così ridicole.


Ma in realtà non è questo ciò di cui voglio davvero parlarvi.


Il cammino evolutivo delle civiltà si muove verso un’Europa delle Patrie, una fratellanza di nazioni dove è salvaguardata la sovranità nazionale per mezzo della possibilità di battere moneta, evitando di delegare alla BCE tale fondamentale funzione. Una nazione che non può battere moneta e deve chiedere il suo denaro in prestito a un gruppo di banchieri privati (la BCE, appunto) di fatto non è più uno Stato, ma una provincia. Per far fallire il disegno egemonico dell'oligarchia mondiale serve un'Europa solida edificata su nazioni indipendenti. Un’Europa delle Patrie, appunto.


Perché l'Europa sia forte, debbono essere forti le identità delle nazioni che la compongono. La somma di tanti 0 non può che dare 0 come risultato. L'immigrazione incontrollata porta allo sfaldamento di queste identità nazionali e produce sradicamento e quindi spaesamento nelle persone, che in tal modo non si riconoscono più in nulla. I “senza Patria” sono psicologicamente meno resistenti e più assoggettabili di coloro che invece possiedono radici forti sotto i loro piedi. È la stessa differenza che passa fra un bambino cresciuto in una famiglia solida, dove gli sono stati trasmessi i valori su cui la famiglia stessa si è sempre basata, oppure un bambino che è vissuto in orfanotrofio, dove gli unici “valori” erano le regole dell'orfanotrofio, uguali per tutti e quindi valide per nessuno.
L'Europa di oggi non è una fratellanza, come si vuol far credere, ma un orfanotrofio.


Ciò che non si vuole ammettere, nonostante sia sotto gli occhi di tutti, è che proprio la contaminazione etnica produce le guerre etniche. Essa viene favorita dai poteri oligarchici, in quanto la convivenza forzata genera esasperazione e tensione fra i popoli. E il caos, la paura, l'insicurezza... fanno il gioco di chi vuole mantenere il suo potere sulle masse. Niente accade o viene lasciato accadere a caso; l'immigrazione incontrollata c'è poiché è funzionale alla creazione del disagio sociale. Lo sradicamento psicologico – il non riconoscersi più in un’identità nazionale – rende insicuri e arrendevoli i popoli. E questo è lo scopo finale: assenza di identità nazionale, identità familiare e identità sessuale conducono a una frantumazione dell’io, che non potendo più affermare se stesso, si identifica con gli aspetti più esteriori e sterili della vita (annullamento nel lavoro, possesso di beni materiali, bisogno di emozioni forti) facendo inconsciamente il gioco di chi lo vuole tenere sedato.



Per essere italiano non è sufficiente sposare un cittadino italiano e non è nemmeno sufficiente essere nato sul territorio italiano. Non è certo la posizione nello spazio a definire la mia identità! Se io sono inglese o nigeriano, figlio di inglesi o nigeriani, non è il fatto di essere nato in un ospedale italiano a fare di me un italiano. Se anche Fiona May fosse nata in Italia e non in Inghilterra, questo non sarebbe bastato a fare del suo record il record italiano del salto in lungo. La sua performance resta una misura giamaicana, perché quella è la sua genetica. E questo discorso non è sicuramente razzista, in quanto io posso solo provare simpatia per gli atleti giamaicani – che secondo me sono fra i più simpatici nel panorama sportivo – ma non per questo posso accettare che la (fortunata) genetica giamaicana rappresenti quanto può saltare in lungo o quanto può correre veloce un italiano... che possiede una genetica totalmente diversa.


Esiste ancora oggi ed è giuridicamente valida – ma viene adottata sempre meno – la nozione di ius sanguinis (=il diritto del sangue), in virtù della quale si può venire considerati cittadini di una nazione solo se almeno uno dei due genitori è già cittadino di quella nazione. Il diritto di cittadinanza – e quindi di voto nelle elezioni – dovrebbe essere legato a un sistema di valori condiviso dalla comunità, intesa come “comunità omogenea che si perpetua storicamente”. Non possiede invece alcuna giustificazione lo ius soli (=diritto del suolo) – molto applicato oggi – secondo il quale è sufficiente nascere all'interno dei confini d’uno Stato per acquisire automaticamente la cittadinanza di quello Stato. Come ho detto in precedenza, io non divento inglese per il solo fatto d’essere nato in Inghilterra, in quanto non ho nulla di britannico nel mio sangue. E ancor più assurdo sarebbe che io venissi considerato un nigeriano per il solo fatto d’esser nato in Nigeria. Provate a riflettere su questo: se i vostri genitori si fossero trasferiti in Nigeria e voi foste nati in quel paese, adesso vi sentireste nigeriani?


Io sono orgoglioso d’essere italiano, così come un nigeriano dovrebbe essere orgoglioso d’essere cittadino nigeriano e un rumeno dovrebbe essere orgoglioso di essere rumeno. Quella che rappresenta la storia dei propri avi è la cittadinanza di cui andar fieri. Il “sentirsi italiani” va ben al di là dell'essere nati in un luogo geografico. E mi sembra assurdo dover stare qui a spiegarlo!


Si deve imparare a distinguere fra cittadino e “membro dello Stato”. Il primo è colui che si riconosce in una storia e in una cultura ed è artefice e portatore della grandezza d’una Patria. Può invece diventare “membro dello Stato”, con un certificato che lo attesti, colui che soggiorna e lavora onestamente all’interno d’una nazione che non appartiene alla sua cultura d’origine, godendo di tutti i diritti ma non del diritto di voto (né del diritto di far valere i suoi record personali come record della nazione di cui è membro).



Vi ho illustrato la situazione e le sue conseguenze psicologiche (la perdita d'un’identità chiara nell’individuo), ma non vi posso illustrare la soluzione, perché non c’è, in quanto il fenomeno non è arginabile. Non ci si può arroccare dentro una nazione e difenderla come un vecchio castello medioevale. La soluzione è di ordine verticale, ma è riservata a pochissimi: trovare una nuova identità, non più psicologica ma spirituale, ossia identificarsi con l’anima. Ma questo è un altro discorso, per cui rimando alle mie opere.


Chiunque abbia ravvisato dell'intolleranza nelle mie parole – così come chi ha visto dell’omofobia nel mio articolo sull’omosessualità – deve cercare quest'intolleranza dentro di sé, perché in me non è minimamente presente. In me c'è un profondo rispetto per tutte le razze e per tutti i popoli di questo pianeta, e proprio perché mi stanno a cuore le identità culturali di ciascuno, non voglio che le diversità scompaiano, al contrario, vorrei non si perdessero nemmeno le identità regionali. Io non sono uguale a nessuno e nessuno è uguale a me. Si può vivere pacificamente pur nel riconoscimento di profonde diversità, senza che nessuno si senta forzosamente costretto a “diventare uguale”.


Salvatore Brizzi
(professione: cane di Dio
D.O.G. = Dogs Of God)

http://altrarealta.blogspot.it/

Commenti

  1. Il suo discorso è dispersivo e inconclusivo. Prenda ad esempio gli Stati Uniti d'America che hanno costruito, malgrado le controversie, un popolo multietnico. Possiamo parlare di Americani ispanici, irlandesi, italiani e via scorrendo, ma pur rimangono cittadini americani. Dovremmo far collimare la persona non tanto con il fattore di appartenenza ma la sua propensione alla vita attiva, rimettendo fiducia e solidarietà, in quanto uomo/donna, prima ancora che "italiano/nigeriano". Identificandoli come cittadini, apprendo un nuovo dialogo che possa giovare al risanamento culturale; stimolando la diffusione della cultura, dei costumi, delle tradizioni e la lingua.

    Io in primis non metto in dubbio che i flussi immigratori sono un problema, perché sono strumentalizzati dal fattore economico e dalla bassezza umana. A noi spetta l'arduo compito di conservare e preservare la nostra identità originale, ponendola però in un aperto dialogo, altrimenti il rischio di fanatismo e d'odio razziale è dietro l'angolo.

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