I “Delitti Partigiani” e Compagno Mitra
una recensione con un articolato commento a cura di ANDREA ZAMBRONE *
Con il libro “Compagno mitra” hanno nome e volto quei partigiani che uccisero nemici politici e innocenti padri di famiglia. Molti fatti raccontati dallo storico Gianfranco Stella sono noti. Quel che non era noto erano i nomi dei killer e delle bande di gappisti che agivano indisturbati in nome della giustizia proletaria con omicidi, razzie, sequestri ed estorsioni riuscendo a sfuggire alla giustizia o salvandosi con pochi anni di carcere. Come il partigiano Drago: un killer spietato che ammazzò 150 persone, tra cui il sacerdote don Dante Mattioli, il cui corpo non venne mai trovato. Coperto dal Pci, sconosciuto ai libri di storia, nessuno lo disturbò mai e morì nel suo letto con al collo una medaglia al valor militare.
Molti di loro vennero decorati con la medaglia d’oro, altri diventarono persino deputati del Pci o segretari dell’Anpi locale. Ad altri ancora la vita non fu facile, dovettero conoscere la dura fatica nei campi di patate nella Cecoslovacchia sovietica, ma poi dopo pochi anni tornarono a casa dove poterono così ricominciare la loro vita, come se niente fosse.
C’è anche chi fu condannato all’ergastolo subito dopo la fine della guerra, ma potè godere dell’amnistia di Togliatti già dal 1950 e così ripulirsi per gli anni a venire. La carrellata di killer spietati raccolta nel libro Compagno mitra (in uscita su Feltrinelli e Amazon il 15 novembre; per info stella.gianfranco46@libero.it) rappresenta un documento impressionante di come la Resistenza di marca comunista si sia macchiata di crimini orrendi che rimasero impuniti allora e oggi sono stati semplicemente derubricati ad azioni di guerra.
Con questo libro, il suo autore, lo storico Gianfranco Stella, ha completato l’anello mancante che serviva per una completa pacificazione nazionale: dire i nomi di chi, approfittando del caos seguito all’8 settembre, regolò i conti in vista di una imminente rivoluzione bolscevica. E’ per questo che la presentazione di sabato scorso a Reggio Emilia ha in un certo senso chiuso finalmente il cerchio. Un cerchio iniziato molti decenni fa con la pubblicazione dei nomi delle vittime della violenza partigiana. Semplici nomi, a quali dopo molti decenni si aggiunsero le dinamiche nelle quali maturarono i crimini più efferati. Tutto questo ha alimentato la cosiddetta storiografia revisionista alla quale però mancava spesso un cappello finale: il nome, appunto degli assassini.
Ebbene, i nomi spesso c’erano, in molti casi si conoscevano perché le inchieste giudiziarie fecero il loro corso prima dell’amnistia. Ma l’amnistia, oltre a salvare centinaia di killer spietati dall’ergastolo, produsse anche un fenomeno ingiusto: mettere al riparo quelle persone delle quali poi nessuno potè parlare, perché in fondo protette dalla cappa onnipresente del partitone rosso, che garantiva loro di poter ricominciare indisturbati la loro vita per non macchiare la vulgata resistenziale che nel frattempo si imponeva nelle scuole, nei libri di testo e nei comuni.
In questo libro di 600 pagine i nomi sono la cosa più significativa. Molte dinamiche, molti eccidi, si conoscevano. Ma ad esse mancava giusto il responsabile. Ed è per questo che l’Anpi sabato ha manifestato davanti all’albergo delle Notarie di Reggio Emilia dove dentro Stella presentava il suo libro con il Centro Studi Italia e la Fondazione Azzolini: perché quei nomi, riportati alla luce da Stella, sono la prova che nel Triangolo della morte, ma anche in Liguria, in Veneto, in Lombardia e in generale in tutto il nord Italia, i partigiani comunisti hanno ucciso innocenti per puro odio ideologico e politico. Dal punto di vista storico, bisognerà dunque arrivare anche ad una revisione di quella stagione che tenga conto appunto anche delle coperture di cui questi criminali hanno goduto.
Basterà, per far comprendere questi silenzi lunghi oltre 70 anni, raccontare anche solo un caso degli oltre 200 resi noti e messi in fila da Stella. E’ quello di un partigiano fantasma, il cui nome non compare neppure nella storia della Resistenza reggiana di Guerrino Franzini, che rappresenta la “bibbia” della vulgata resistenziale.
Di Licinio Tedeschi (in foto), nome di battaglia Drago, ma anche Marat, nessuno sapeva nulla. Il suo nome si perde nell’aneddotica delle famiglie vittime, che da troppi anni piangono i loro cari ben sapendo il nome di chi uccise così barbaramente un padre o un fratello. Ma nessuno ebbe mai il coraggio di parlare. Eppure, la figura di Licinio Tedeschi è impressionante per crudeltà a cui si aggiunse nel tempo una impunità sprezzante e sicura per un uomo cui, a conti fatti, Stella attribuisce la bellezza di 111 vittime nell’immediato dopoguerra e 39 prima del 25 aprile. Numeri che non si spiegano senza mettere in conto una copertura di una struttura di livello più alta. Tedeschi nasce a Castelnovo Sotto in provincia di Reggio Emilia nel 1914. Di lui, Stella dice: “Licinio Tedeschi può essere considerato tra i più spietati serial killer della Resistenza italiana e il maggior assassino del Reggiano. Suoi pari vi saranno stati, ma nessuno ho trovato più assassino di lui. Uccise preti, medici, carabinieri, donne, presunte spie, ex fascisti, professionisti, facoltosi imprenditori che nulla avevano a che fare col Fascismo e anche partigiani”.
Con un curriculum del genere si comprende bene perché il Pci reggiano avesse interesse a coprirlo. Perché con Drago ad uccidere c’era un nutrito squadrone della morte che ha seminato il terrore nelle campagne della Bassa reggiana per un triennio almeno. Una squadra di killer che qualcuno consentiva operasse indisturbata e che, subito dopo la guerra potè riscuotere come una cambiale impunità e protezione. Stella racconta infatti che Tedeschi fu impiegato alla segreteria dell’Anpi “grazie alle contribuzioni forzate che riusciva egregiamente a incassare e parzialmente a versare”. Il suo primo omicidio lo compie a Udine nelle caotiche giornate dell’armistizio all’interno della caserma del 23esimo reggimento dove era soldato. E’ il 9 settembre, appena il giorno dopo la destituzione del regime, quando uccide il sottoufficiale addetto all’armeria che si era opposto alla sua pretesa di prelevare armi. Ne riempì due borsoni e il sottoufficiale venne derubricato a vittima dei tedeschi che quel giorno avevano occupato la caserma. Da quel giorno Tedeschi non smise più di ammazzare. “Le sue azioni piacevano al partito comunista e meno ai membri del Comitato di Liberazione provinciale i quali denunciavano l’inutilità di quelle sciagurate iniziative e finivano sempre col provocare reazioni dei tedeschi”. Ma lui andò avanti. Ad esempio: il 13 aprile del 1945, proprio nello stesso giorno in cui veniva ucciso il seminarista Rolando Rivi, prelevò tre persone: il commissario prefettizio del comune di Castelnovo Sotto, un residente e il parroco don Dante Mattioli e il nipote. Furono uccisi tutti con colpi di pistola e i corpi non vennero mai ritrovati.
La morte di don Dante Mattioli è sempre rimasta un mistero. Il suo nome è finito nel martirologio delle vittime del clero per mano partigiana, ma ora, con questi documenti scoperti da Stella, si può finalmente avere un colpevole che uccise per odium fidei un parroco che nulla aveva a che fare con il Regime e aveva come unica colpa quella di non essere comunista. Di storie del genere, la cartella di Tedeschi è piena e finalmente per tanti famigliari si può dare un nome ai killer rimasti nell’ombra per 70 anni. Il 25 aprile ad esempio, tanto per festeggiare la Liberazione pensò di ammazzare il medico condotto del Paese di Gattatico, il dottor Enrico Alberti e così fece nei giorni seguenti con la sua squadra della morte per cittadini che avevano come unica colpa l’avere la tessera del partito fascista. Le sue azioni non si limitavano agli anti-comunisti. Un partigiano rosso, Mario Bertozzi di Boretto, durante un periodo di detenzione, fece il suo nome in riferimento ad alcuni delitti. Appena uscì venne freddato da una raffica. La stessa sorte toccò ad un altro compagno di armi che aveva rivelato alle autorità la base segreta di Drago.
E ancora: taglieggiava per conto del partito comunista gli imprenditori della zona e chi non si piegava veniva ucciso, sequestrò molti possidenti in nome della giustizia proletaria. Nessuno poteva fermarlo: uccise ancora il maresciallo dei carabinieri di Brescello, il cui corpo venne ritrovato soltanto negli anni ’60 durante uno scavo. A lui è legato un episodio della carriera del celebre giornalista Enzo Biagi. Il nome di Licinio Tedeschi era nell’aria, ma nessuno lo faceva per paura. Così, per controbilanciare la linea editoriale scelta dalla Rizzoli che con il settimanale Epoca aveva documentato molte efferatezze partigiane, volle sentire anche l’altra campana. Andò a Poviglio, dove negli anni ’60, Tedeschi si era trasferito e si presentò a casa sua per chieder un’intervista. Per nulla intimorito dalla fama del grande giornalista rifiutò qualunque tipo di incontro. Allora Biagi gli fece prospettare il pagamento di una somma di denaro. Ma neppure questo lo smosse: “Il killer gli rispose che se avesse voluto denaro, gli sarebbe bastato girare durante il giorno di mercato per le strade di quei comuni dove era conosciuto e con il cappello in mano avrebbe riscosso tanto denaro da riempirlo”, riferisce Stella.
Una ricchezza che il Drago non teneva soltanto per sé. Stella sostiene che parte delle contribuzioni forzate che Tedeschi versò all’Anpi servirono al Pci per acquistare l’antico palazzo di Rocca Saporiti in via Toschi, che nel ’54 diventerà la nuova sede del partito. Da ultimo va detto che quando nel ’46 gli venne revocata la medaglia d’argento al valor militare, fu proprio l’Anpi a fare pressioni perché potesse riottenerla. Ebbene: la riebbe nel 1988 con un decreto presidenziale apposito nelle cui motivazioni viene ricordato un episodio di un combattimento valoroso contro i tedeschi. Nessun cenno, ovviamente, alla seriale attività di killer in nome e per conto della Resistenza rossa.
citando Orwell: “Nel tempo dell’inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario”.
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