Londra, boom tricolore: gli italiani scappano da crisi e burocrazia

Gli emigranti siamo noi. Boom tricolore in riva al Tamigi, dove fuggono dai patrii lidi cervelli, gambe e braccia in gran quantità.
A certificare che Londra sta tornando a essere un po' Londinium sono gli ultimi dati del Department for work and Pensions del governo di Sua Maestà. Le cifre relative agli stranieri che hanno fatto domanda per ottenere il «Nino» ( National insurance number , una sorta di numero di previdenza sociale, essenziale per lavorare), rivelano che tra aprile 2013 e lo scorso marzo sono gli italiani gli expats che hanno attraversato più numerosi la Manica per trasferirsi nella capitale britannica, il 12 per cento del totale delle new entries da oltremare, seguiti a distanza da spagnoli, romeni e polacchi.
Con buona pace di Omar Pedrini e della sua «Che ci vado a fare a Londra?», tanto popolare come canzone quanto poco ascoltata come consiglio, ben 28.345 italiani hanno fatto le valigie e lasciato il Belpaese per andare proprio lì, e a questo plotone vanno aggiunti altri 14mila connazionali che hanno piantato le tende nel resto della Gran Bretagna. Quasi 42mila persone, solo nell'ultimo anno, con una crescita del 28 per cento rispetto al 2012. I nuovi emigranti che scelgono Londra sono in maggioranza giovani, tra i 18 e i 34 anni, attirati dal fascino della metropoli cosmopolita ma soprattutto dalle migliori opportunità di lavoro, con la ristorazione che fa ancora la parte del leone. E l'ultima ondata di offerta di italian job è in buona compagnia. Perché il record di fughe londinesi di quest'anno resta nel solco di un trend di forte crescita. Se al censimento del 1851 i nostri connazionali residenti a Londra erano 1.604, le cose ultimamente sono molto cambiate. Negli ultimi cinque anni, da aprile del 2009 a oggi, gli italiani che hanno richiesto un National insurance number fissando nella capitale britannica il proprio domicilio sono oltre 93mila: è come se l'intera città di Brindisi fosse andata a cercare fortuna oltremanica.
Gli expats nostrani sono sparsi per l'intera metropoli, se più di una dozzina dei 33 borghi in cui Londra è divisa hanno visto arrivare almeno mille italiani ciascuno nell'ultimo anno. Il distretto «tricolore» d'elezione, dal 2008 a oggi, è Tower Hamlets, nell'East End, dal quale provengono oltre 10mila richieste di «Nino» targate italia nell'ultimo quinquennio, quasi 3.500 solo nel 2014. E forse non è un caso che proprio qui, a Canary Wharf, sorgano come funghi i ristoranti italiani, per ammorbidire la nostalgia di casa.
D'altra parte la nuova emigrazione, per molti, è temporanea. E spesso indotta. Dalla voglia di scappare da un sistema ancora incastrato tra baronie e raccomandazioni, o semplicemente dal bisogno di un impiego che in patria, con tutta la buona volontà e nonostante i titoli di studio, proprio non si trova.
Lo certifica anche l'ufficio nazionale di statistiche britannico, che tra i fattori che influenzano le richieste dei numeri di previdenza rimarca gli «alti tassi di disoccupazione» dei Paesi più duramente colpiti dalla crisi dell'Eurozona. Citando Spagna, Portogallo, Grecia. E, ovviamente, noi. Che emigriamo in massa, senza troppe distinzioni tra padani e terroni. Perché se il Sud rispetta la sua amara tradizione, fornendo il 41 per cento degli italians a Londra, anche il Nord e il Centro contribuiscono per il 31 e il 17 per cento. Succede, se il Paese in cui vivi non sa convincerti che anche restando può esserci speranza. Così c'è pure chi va in Scozia e in Irlanda del Nord con l'idea di aprire un negozio. Il motivo è semplice: la burocrazia italiana uccide, quella anglosassone aiuta. Per dirla con Matteo Renzi, «partite tranquilli».

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