il Barone Rosso, sfatare un mito


“Quando volo al di sopra delle trincee fortificate e i soldati gridano di gioia vedendomi e io guardo le loro facce grigie, consumate dalla fame, dalla mancanza di sonno e dalla battaglia, allora sono felice e mi rallegro. Dovresti vederli; spesso dimenticano il pericolo, saltano sulla tettoia sventolano i fucili e mi salutano. Questa è la mia ricompensa, madre, la mia ricompensa più bella” Manfred Von Richthofen

Chi ci abbia seguito, su questo sito, nel corso degli anni, sa bene che non ci si può accusare di germanofobia; che, anzi, ci siamo costantemente impegnati per ristabilire un giudizio storico più equilibrato su uomini e fatti della politica tedesca moderna e contemporanea, contro i tanti, troppi luoghi comuni che ancora la avvolgono e la deformano stupidamente.
Proprio in nome di tale sforzo di obiettività ci sentiamo in diritto di sfatare un mito di cartapesta che da sempre affligge gli appassionati dell’aviazione da guerra: quello del barone Manfred von Richthofen, universalmente noto come il Barone Rosso (dal colore di cui erano dipinti i suoi velivoli), asso della prima guerra mondiale, con ottanta vittorie certificate, nato a Breslavia il 2 maggio 1892 e caduto in combattimento col suo triplano Fokker  il 21 aprile 1918 nei cieli della Somme, poco prima di compiere ventisei anni, che ricevette dai suoi avversari britannici solenni onoranze funebri e che in vita e in morte fu un’autentica leggenda per il pubblico tedesco.
Eroico aviatore? Veramente la sua tecnica, nei duelli aerei, era quella di tenersi un po’ in disparte, individuare i piloti avversari più inesperti o i velivoli in difficoltà, per esempio con la mitragliatrice inceppata, quindi piombare su di essi preferibilmente alle spalle - in gergo tecnico, “mettersi in coda” -, abbattendoli con relativa facilità e badando più al numero delle vittorie che alla loro qualità. Questa fu anche la tattica da lui adottata nel suo ultimo combattimento: inseguire un aereo inglese la cui arma non funzionava più; ma questa volta fu a sua volta preso di mira da un altro velivolo avversario, che pose fine per sempre alla sua carriera.
Insomma, a dispetto della leggenda che, mentre era ancor vivo, lo aveva circonfuso di gloria, come il rappresentante di un modo ancora cavalleresco di fare la guerra, la verità è che Richthofen fu il perfetto prototipo del soldato “moderno”; efficiente, spietato, senza scrupoli e soprattutto senza alcun romanticismo, anzi con frequente compiacimento: per lui i velivoli nemici da abbattere erano solamente numeri, trofei da aggiungere al suo carnet.


Allo stesso modo, fin da giovane, si era abituato a considerare gli animali di cui era un accanito cacciatore, nelle immense proprietà rurali dell’Est germanico, nel regno semifeudale degli Junker: ancora durante la guerra, quando tornava a casa in licenza, non tralasciava di recarsi nelle foreste presso il confine con la Polonia russa per abbattere, oltre che i cervi, gli ultimi bisonti (da lui sempre chiamati “mostri” nelle sue memorie), secondo una macabra moda lanciata dal Kaiser Guglielmo II, per ornare con le loro spoglie le pareti della propria casa.
Nelle operazioni di bombardamento, specialmente sul fronte russo, dove l’aviazione avversaria era pressoché inesistente, Richthofen si mostrava altrettanto spietato e scarsamente cavalleresco: stando alle sue stesse parole, sembra che colpire obiettivi nemici indifesi, quali treni, reparti in marcia di fanteria e cavalleria, oppure palloni frenati, fosse una cosa che gli procurava un vivissimo “divertimento” (per usare il termine da lui ripetutamente adoperato) e che non gli causava il benché minimo rammarico, per non parlare di disagio o di rimorso.
Se proprio si vuol cercare qualche figura cavalleresca in quel grande carnaio che fu la prima guerra mondiale, bisognerebbe piuttosto cercarla nella tanto vituperata (a causa della guerra sottomarina) Marina tedesca, almeno nelle primissime fasi del conflitto; per esempio, in quella del capitano Karl von Müller, dell’incrociatore «Emden», che, con la sua avventurosa guerra di corsa nell’Oceano Indiano, seppe farsi stimare e ammirare dagli stessi equipaggi e dai passeggeri delle navi alleate che riuscì a catturare e affondare nel corso della sua breve ma gloriosa crociera.
Von Richthofen è entrato nell’immaginario collettivo, conquistandosi un posto da eroe anche in numerosi film, romanzi e perfino in giornalini a fumetti, grazie ai duelli aerei da lui sostenuti sul fronte occidentale; nel film di Jean Renoir «La grande illusione» (1935), per esempio, la sua figura è interpretata dal grande attore Erich von Stroheim quale perfetto esemplare di “cavaliere del cielo”, senza macchia e senza paura, reso saggio dagli orrori vissuti in guerra.
A noi, però, sembra che la sua vera natura emerga in maniera più chiara proprio dalle azioni di bombardamento da lui compiute sul fronte orientale, quando l’esercito russo, compiendo l‘ultimo sforzo della offensiva Brusilov, era ormai quasi giunto alla vigilia del collasso morale e materiale): perché la vera indole di un uomo si misura quando egli è alle prese con un avversario più debole, e non già quando si confronta con uno del suo stesso livello.
In tali azioni, inoltre, si registra quella tipica sproporzione, che diverrà enorme e assumerà caratteristiche criminali durante la seconda guerra mondiale, fra il rischio, assai modesto, corso dall’attaccante e i danni enormi, potenzialmente riservati anche alle popolazioni civili, inflitti all’attaccato: la stessa sproporzione che vedrà, nel 1943-45, alcune migliaia di giovani piloti britannici e americani mettere a ferro e a fuoco, volando quasi senza rischi e servendosi di bombe incendiarie al fosforo liquido, le città d’Europa, e soprattutto della Germania, provocando centinaia di migliaia di morti, donne e bambini intenzionalmente bruciati vivi, con assoluto prezzo della vita umana - lo stesso cinico sprezzo che mostreranno gli autori del bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki.
Ma cediamo la parola allo stesso protagonista, così come si esprime nel segreto di un diario che, nelle sue intenzioni, quasi certamente non era destinato alla pubblicazione e che, infatti, apparve postumo  a cura di suo fratello, il barone Bolko (da: Manfred von Richthofen, «Io sono il Barone Rosso»; titolo originale: «Der rote Kampfflieger»; traduzione italiana di Giorgio Cuzzelli, Milano, Longanesi & C., 1975, 1983, pp. 71-76):

«In giugno [del 1916] arrivò improvvisamente l’ordine di caricare tutto sui treni. […]
In Russia il nostro stormo da bombardamento ha lanciato molte bombe. Noi ci davamo da fare per indispettire i russi e deponevamo le nostre uova sulle loro più belle installazioni ferroviarie […]
Ci si può entusiasmare per molte cose e io per un po’ mi entusiasmai per le incursioni aeree. Mi divertiva moltissimo far grandinare della roba su quei tipi là sotto. Spesso mi alzavo in volo anche due volte al giorno. Quel giorno, dunque, il nostro obiettivo era Manjevicze. Ogni squadriglia partì per conto proprio, risoluta a fare la guerra alla Russia.
Gli apparecchi erano fermi sulla linea di partenza. Ogni pilota provò ancora una volta il motore perché atterrare dalla parte sbagliata è molto penoso, specialmente in Russia. I russi non gliela perdonano agli aviatori. Se ne beccano uno, gli fanno sicuramente la pelle. Questo, del resto, è l’unico pericolo in Russia, dove l’aviazione nemica praticamente non esiste., o quasi. I pochi che si fanno avanti son sicuramente sfortunati e vengono abbattuti. I pezzi contraerei russi sparano qualche volta abbastanza bene, ma il loro numero è insufficiente. A confronto dell’occidente, comunque, volare sul fronte orientale equivale a un periodo di riposo.[…]
Dopo un volo di guerra con un bombardiere si ha la seguente sensazione: “Ecco, ho combinato qualcosa!”, mentre nei voli con il caccia uno è costretto a dirsi, quando rientra senza aver concluso nulla: “Avrei potuto far di meglio!”. Mi piaceva molto lanciare bombe. Il mio osservatore un po’ alla volta aveva imparato a portare l’aereo esattamente sulla verticale del bersaglio e a indovinare con l’aiuto del cannocchiale il momento giusto per deporre l’uovo raggiungere in volo Manjevicze è bello. Ci sono già stato varie volte.
Quel giorno sorvolammo immense foreste certamente piene di alci e di linci. I villaggi in compenso avevano ‘aria di trovarsi in capo al mondo.  L’unica grande località abitata in tutta la regione era Manjevicze. Intorno al villaggio sorgevano innumerevoli tende e vicino ala stazione una massa di baracche. Non vedemmo alcuna croce rossa. Eravamo stati preceduti da un’altra squadriglia. Lo constatammo vedendo case e baracche che fumavano ancora. I nostri non avevano mirato male. Una delle uscite della stazione era palesemente bloccata da un colpo andato a segno. Dalla locomotiva usciva ancora vapore. I signori capitreno si erano certamente rifugiati in qualche ricovero o roba del genere. All’estremità opposta della stazione, una locomotiva partiva proprio in quel momento a gran velocità. Era un’autentica provocazione: bisognava colpirla. Puntiamo sulla vaporiera e piazziamo una bomba a un centinaio di metri più avanti, sul binario. Il lancio ha l’effetto desiderato, la locomotiva si ferma. Facciamo dietro-front per piazzare le bombe a una a una, ben mirate con il cannocchiale, sulla stazione. Tanto, abbiamo tutto il tempo che vogliamo, visto che nessuno ci disturba. Nelle vicinanze esiste bensì una base aerea nemica, ma i piloti non si fanno vedere. Ogni tanto si sente il colpo di qualche pezzo contraereo che però spara in un’altra direzione Ci liberiamo di tutte le bombe meno una per impiegarla in maniera particolarmente utile durante il colo di ritorno. Improvvisamente vediamo un aereo nemico decollare dalla base russa. Che abbia l’intenzione di attaccarci? Non lo credo. Molto più probabilmente tenta di mettersi al sicuro alzandosi in volo. Questo, infatti, è il sistema più comodo per salvare la pelle nell’eventualità di un’incursione aerea sulla propria base.
Durante il volo di ritorno facciamo qualche deviazione alla ricerca di accampamenti militari. Inquietare i signori là sotto con le mitragliatrici è infatti un’impresa particolarmente divertente. Le tribù semiselvagge come gli asiatici hanno più paura dei progrediti inglesi. Particolarmente interessante è prendere di mira la cavalleria nemica. Un simile attacco sgomenta la gente. Li si vede dall’alto disperdersi in tutte le direzioni. Non mi piacerebbe essere il comandante di uno squadrone di cosacchi attaccato da un aereo con le mitragliatrici. Un po’ alla volta riuscimmo di nuovo a scorgere le nostre linee.  Era venuto il momento di liberarci dell’ultima bomba. Così decidemmo di appiopparla a un pallone frenato, “il” pallone frenato dei russi. Nulla ci impediva di scendere a poche centinaia di metri di quota e di colpire da lì il pallone. Al principio i russi cominciarono a ritirarlo in fretta, per smettere poi non appena caduta la bomba. Secondo me, non era che avessi colpito il pallone. Più probabilmente, i russi avevano piantato in asso il loro atamano lassù nella gondola e erano scappati. Finalmente raggiungemmo il nostro fronte, le nostre trincee, e una volta arrivati a casa constatammo con molta meraviglia che da baso ci avevano sparato addosso, a giudicare da un buco in u’ala.
Un’altra volta ci alzammo in volo nella stessa regione per contrastare un attacco dei russi che volevano attraversare il fiume Stochod. Arrivammo sul tratto pericolante carichi di bombe e di cartucce per la mitragliatrice e constatammo con somma meraviglia che la cavalleria nemica stava già varcando il corso d’acqua. Un unico pinte assicurava l’afflusso dei rifornimenti. Non vi erano dubbi: bastava colpirlo per infliggere un ingente danno al nemico. Inoltre un torrente di truppe stava varcando lo stretto ponticello. Scendemmo alla quota più bassa possibile e constatammo così che la cavalleria nemica  attraversava a grande velocità il ponte. La prima bomba esplose nelle immediate vicinanze di esso, seguita da una seconda e poi da una terza. Là sotto, lo scompiglio era terribile.
Il ponte, a dir la verità, non l’abbiamo colpito, ma il traffico è cessato completamente tutti scappano in ogni direzione. È un bel successo, visto che abbiamo lanciato appena tre bombe. Tanto, ci seguiva tutto lo stormo. Così potemmo ottenere altri buoni risultati. Il mio osservatore sparava a tutta birra quelli là sotto. La cosaci divertì un mondo. Quale fosse il successo reale della nostra azione, non so dirlo. I russi non sono mai venuti a raccontarmelo. Allora, comunque, avevo la presunzione di aver respinto da solo l’attacco russo.»

Leggendo queste pagine, invano si cercherebbe una nota di umanità, di pensosità, di serietà: la guerra aerea sembra un gioco, un gioco oltretutto facile e praticamente senza rischi; ma, soprattutto, un gioco divertente, dove le bombe si lasciano cadere quasi per gioco e le mitragliatrici falciano gli uomini e i cavalli inermi, sulla pianura, in una atmosfera gaia e festosa, da goliardi universitari, che pensiamo sarebbe piaciuta assai ai futuristi, e specialmente al Marinetti di «Zang- tumb - tumb. L’assedio di Adrianopoli».
Anche il fatto di chiamare “uova” le bombe sganciate sulle postazioni nemiche, benché facesse parte del linguaggio gergale dei piloti, in questo diario scritto non nel vivo delle azioni di guerra, ma a una certa distanza di tempo da esse, e quindi a mente fredda, fa un po’ ribrezzo, pensando a ciò che significava, in concreto, lo sganciamento di quel tipo di “uova”.
Il nemico non è visto nella sua umanità e nemmeno viene riconosciuto nella sua pari dignità di combattente: un inequivocabile sapore razzista traspare dalla descrizione dei Russi come di membri di «tribù asiatiche e semiselvagge», laddove l’Autore non si rende conto che è soprattutto la propria superiorità tecnologica a fargli guardare con tanta sufficienza, con tanto disprezzo quei fanti e quei cavalleggeri, il cui valore nell’offensiva sul fiume Stochod, benché difettassero di armi e munizioni (e tuttavia riuscirono quasi ad assestare una zampata decisiva agli Austro-Ungarici) avrebbe meritato un franco e leale riconoscimento, da soldato a soldato.
Le foreste russe, poi, gli fanno venire subito in mente la ricca selvaggina che deve occultarvisi: alci, linci; che meravigliosi bersagli sarebbero per il suo fucile, sembra voler dire Richthofen, se solo egli potesse scendere a terra per una bella battuta di caccia. Insomma, non pare un diario di guerra, ma il diario di un ragazzaccio che ha una maniera assai particolare di divertirsi, quella di mitragliare e bombardare a volontà, così, per scaricare un po’ di energia, oltre che per ammirare, dall’alto, l’effetto estetico delle sue prodezze.
Ed è vero: il Barone Rosso era appena un ragazzo: quando svolgeva quelle missioni, non aveva che ventitre anni.
Ma allora, perché farne a tutti i costi un eroe e, magari, anche un simbolo della guerra nobilmente pensosa e cavallerescamente combattuta?
In effetti, qualche accento di umana pensosità si nota, nel diario, ma solo quando si tratta dei duelli con i piloti avversari: come se, fra aviatori, vigesse ancora il mondo dei valori umani e della umana comprensione; mentre nessuna considerazione, nessuna pietà si notano per le vittime a terra, per i fanti, per i ferrovieri, sorpresi su terreno scoperto dalle raffiche di mitraglia.
No, non è stato un soldato cavalleresco e nemmeno nobilmente pensoso, Manfred von Richthofen, come la leggenda ce lo ha voluto presentare.
Certo, la propaganda di guerra ha bisogno anche di queste cose, di questi miti, di questi falsi storici: ma di semplice propaganda, appunto, si tratta, e anche piuttosto grossolana.
Peccato che gli inizi della guerra aerea, nel 1914-18, non abbiano prodotto la benché minima riflessione autocritica sulle sue potenzialità selvaggiamente e indiscriminatamente distruttive; peccato che i protagonisti di questa nuova, inaudita maniera di realizzare massacri su vasta scala, che differiscono da quelli della fanteria o dell’artiglieria per il solo fatto che chi li compie non vede, nel dettaglio, il genere di atrocità di cui è autore, non sembrano essere stati neppure sfiorati dal dubbio di essere i pionieri di una barbarie ancor più sofisticata e ancor più sistematica di quella fino ad allora in uso nella guerra moderna, gas asfissianti compresi.
Forse, dopo tutto, non avevano tutti i torti quei russi, militari o civili che fossero, i quali «non gliela perdonavano» agli aviatori nemici caduti sul loro territorio e non li trattavano come prigionieri di un esercito regolare, ma come dei volgari assassini. Forse avevano intuito di trovarsi di fronte a un nuovo tipo di guerra, a un nuovo tipo di umanità, a un nuovo tipo di questione etica: il massacro “scientifico”  delle popolazioni pianificato dalla tecnica, in nome del Progresso.

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