BANCOMAT, MULTE IN ARRIVO PER I PRELIEVI “INGIUSTIFICATI”
L’ultima follia del Grande fratello: la delega fiscale in via di approvazione obbliga le partite Iva a provare come hanno speso i contanti presi allo sportello automatico.
Adesso vi spieghiamo perché siamo degli schiavi. Dal punto di vista tributario, certo. Non abbiamo diritti. E quando li rivendichiamo, facciamo solo la figura dei fessi. C’è, in alto, la suprema Agenzia delle Entrate guidata da Rossella Orlandi che tutto può e dispone.
La storia che segue è indicativa. Partiamo dalla coda. Gli autonomi o i professionisti devono appuntarsi, euro dopo euro, come hanno usato i quattrini prelevati con il bancomat, pena: sanzione che può arrivare al 50 per cento del prelevato. Lo prevede un codicillo: il comma 7 Bis che sta per essere varato con una delega fiscale. A meno che il governo non si ravveda.
Non saltate sulla sedia. La follia ha una storia.
Tutto nasce da un altro codicillo (il comma 402) di una Finanziaria, pensate un po’ voi, varata dal governo Berlusconi nel 2005. Probabilmente ieri, come oggi, complice l’ignoranza dell’esecutivo, l’Agenzia, o chi per lei, è riuscita ad inserire in una legge complessa una micro norma dagli effetti micidiali.
Chiunque (dotato di partita Iva) subisca un accertamento fiscale avrà sottoposti ai raggi x i prelievi bancomat fatti nel periodo di accertamento (anche cinque anni). L’idea del fisco è che il nero produca nero. E, dunque, se un tizio preleva troppo si presume, legalmente, che «l’eccesso di prelievo» alimenti traffici in nero e debba essere colpito da tassazione al pari di un ricavo. La facciamo semplice. Alcuni professionisti che avevano prelevato in un anno 50mila euro, si sono visti abbuonati dall’accertatore 10mila euro (per spese di vita quotidiana non richiedenti giustificativo) e i restanti 40mila, invece, tassati come se fossero ricavo e dunque reddito. Una follia, ma così è stato.
Fino a quando un povero cristo ha ottenuto da una commissione tributaria volenterosa il rinvio alla Corte costituzionale. Nonostante molte sentenze favorevoli all’Agenzia delle entrate da parte della Cassazione, la Corte stabilì con la sentenza del 2014 numero 228 che si trattava di norma incostituzionale in quanto ledeva il principio di ragionevolezza e di capacità contributiva.
Tutto bene quel che finisce bene. Sì, ma non per i nostri amici delle Entrate. Come più volte denunciato da un attuale sottosegretario all’Economia, Zanetti, sono spesso loro a scrivere materialmente le norme tributarie. E non si lasciano dare per vinti. Sia chiaro: questa roba sui giornali viene sempre descritta come legge indispensabile per combattere l’evasione fiscale. Ma, dicevamo, la storia non finisce qua.
Gli uomini del fisco amavano molto la possibilità di impicciarsi dei nostri contanti e di presumere legalmente quale fetta di essi configuri evasione. E sono tornati, subdolamente, alla carica. Nello schema di decreto di riforma delle sanzioni amministrative tributarie di cui si parla in queste ore è rispuntata, di fatto, la tassa sui Bancomat, che la sentenza della Corte aveva bocciato. Per aggirare la sentenza non si parla più di presunzione legale sui prelievi, ma si tirano in ballo le sanzioni in caso di mancanza di giustificativo del beneficiario del prelievo stesso. In sostanza, in occasione di accertamenti bancari chi non indica (o indica in modo inesatto) il beneficiario dei prelievi si può beccare una sanzione che va dal 10 al 50 per cento dell’importo del prelievo.
Avete, un’altra volta, capito bene. Questi sono pazzi. Secondo loro dovremmo appuntarci, dopo ogni prelievo al bancomat, il registro delle spese di quei contanti. Ma fino a qui si tratta di una follia burocratica e dell’ennesima complicazione tributaria. In realtà, la storia è financo peggiore. Non bastano i nostri appuntini, è necessaria una prova. Ovviamente con data certa e rilievo fiscale, immaginiamo. Anche se fossimo il ragionier Filini (quello di Fantozzi) non ci riusciremmo: gli scontrini non indicano il codice fiscale di chi le riceve. Insomma, non sono parlanti e, dunque, servono a nulla al riguardo. Il fisco inventa una norma, diabolica, e non fornisce il modo per rispettarla (fosse pure accettabile, cosa che non è): nessuna norma primaria o secondaria infatti impone in che maniera possa essere fornita l’indicazione dei beneficiari. Attenti, quindi, a dare mance. Diventa pericoloso comprare un pacchetto di sigarette al giorno: sono 1.500 euro l’anno che non hanno pezze giustificative ufficiali. Per carità, cappuccino e caffè beveteli a casa. E se avete un’amante? Peggio per voi. Il fisco, più che vostra moglie, ve ne chiederà conto.
Si dirà che gli uomini delle Entrate utilizzeranno questo bazooka di cui dispongono con ragionevolezza. Non mi fiderei della loro ragionevolezza, posto che i medesimi non si fidano della nostra e, all’uopo, si dotano di armi di distruzione di massa.
E, soprattutto, viene da chiedersi che modo di legiferare sia questo. Dopo una sentenza della Corte costituzionale si reintroduce in modo surrettizio la medesima minaccia fiscale, sperando che nessuno se ne accorga.
Ecco, ci auguriamo che il governo sventi l’ennesimo colpo di mano della sua Agenzia e che dimostri di non essere complice di questa follia tributaria. Ha ancora qualche giorno per farlo.
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