lunedì 15 agosto 2011

Il FUTURO nel PASSATO


Imparare dal Ladakh
Perché il mondo procede incerto di crisi in crisi? È sempre stato così? Nel passato era meglio o peggio? 
Le esperienze raccolte in più di sedici anni in Ladakh, un’antica civiltà sull’altopiano tibetano, hanno radicalmente mutato la mia risposta a queste domande. Sono arrivata a considerare la mia cultura industriale in una luce assai diversa. Prima di andare in Ladakh, davo per scontato che la direzione del “progresso” fosse in qualche modo ineluttabile, indiscutibile. Di conseguenza, riuscivo ad accettare passivamente una strada nuova nel bel mezzo del parco, una banca di vetro e acciaio al posto di una chiesa antica di due secoli, un supermercato al posto di un piccolo negozio così come il fatto che la vita diventasse sempre più dura e frenetica di giorno in giorno. Ora non accetto più tutto questo. Il Ladakh mi ha convinto che c’è più di un unico cammino verso il futuro e mi ha donato una forza e una speranza straordinarie.
In Ladakh ho avuto il privilegio di fare esperienza di un altro, più sano stile di vita e di osservare la mia cultura dall’esterno. Ho vissuto in una società basata su princìpi fondamentalmente diversi e sono stata testimone dell’impatto del mondo occidentale su tale cultura. Quando vi arrivai ero una fra i primi estranei da diversi decenni e il Ladakh era ancora essenzialmente inalterato dal contatto con l’Occidente. Il cambiamento però sopraggiunse rapidamente. La collisione fra le due culture è stata particolarmente drastica, offrendo confronti crudi e vividi. Ho imparato qualcosa sulla psicologia, i valori e le strutture sociali e tecnologiche che sostengono la nostra società industrializzata e su quelli che sostengono una società antica, basata sulla natura. Si è trattato di una rara opportunità di mettere a confronto il nostro sistema socioeconomico con un altro più essenziale modello di esistenza - un modello basato su una coevoluzione degli esseri umani con la terra. 
Attraverso il Ladakh sono giunta a comprendere che la mia passività di fronte al cambiamento distruttivo era dovuta, almeno in parte, al fatto che avevo confuso cultura con natura. 
Non mi ero resa conto che molte delle tendenze negative che avevo sotto gli occhi erano il risultato della mia cultura industriale piuttosto che di qualche naturale forza evolutiva al di fuori del nostro controllo. Senza rifletterci davvero, avevo anche dato per scontato che gli esseri umani fossero essenzialmente egoisti, sempre in lotta per la competizione e la sopravvivenza, e che società più cooperative fossero niente più che un sogno utopistico.
Non era un caso che la pensassi in questo modo. Anche se avevo vissuto in molti Paesi diversi, tutti avevano una cultura industriale. I miei viaggi in zone meno “sviluppate” del mondo, anche se abbastanza lunghi, non erano stati sufficienti per consentirmi una visione dall’interno. Alcuni percorsi intellettuali, come la lettura di Aldous Huxley e di Eric Fromm, mi avevano aperto qualche porta, ma essenzialmente ero un prodotto della società industriale, educata con quel genere di paraocchi che ogni cultura usa per conservarsi. I miei valori, la mia comprensione della storia, i miei schemi mentali riflettevano tutti la visione del mondo dell’homo industrialis.
Gli esponenti del pensiero occidentale dominante, da Adam Smith a Freud e agli accademici contemporanei, tendono a universalizzare qualcosa, che è in realtà solo parte dell’esperienza occidentale o industriale. In modo esplicito o implicito, essi partono dal presupposto che le caratteristiche, che riscontrano nell’uomo, siano una manifestazione della natura umana piuttosto che un prodotto della cultura industriale.
Questa tendenza a generalizzare l’esperienza occidentale diviene quasi inevitabile man mano che la nostra cultura dall’Europa e dal Nord America arriva ad influenzare tutti i popoli della terra. 
Ogni società tende a collocarsi al centro dell’universo e ad osservare le altre culture attraverso le proprie lenti deformanti. A rendere la cultura occidentale diversa è il fatto che sia divenuta così diffusa e potente da perdere una visione in prospettiva di se stessa; non esiste alcun “altro” con cui confrontarsi. Si parte dal presupposto che tutti gli altri siano come noi, oppure vogliano diventarlo. 
Molti occidentali sono arrivati a credere che le società preindustriali fossero destinate all’ignoranza, alla malattia e a costanti fatiche fisiche e la povertà, la malattia e la fame che vediamo nel mondo in via di sviluppo potrebbero a prima vista dare corpo a questa assunzione. Il fatto è però che diversi, per non dire la maggior parte dei problemi attuali del “Terzo Mondo” sono in gran parte conseguenze del colonialismo e di uno sviluppo mal indirizzato.
Negli ultimi decenni, culture diversificate dall’Alaska all’Australia sono state sopraffatte dalla “monocultura” industriale. I conquistadores di oggi sono lo “sviluppo”, la pubblicità, i media e il turismo. Da un capo all’altro del mondo, “Dallas” risplende nelle case della gente e i completi gessati sono di rigore. Quest’anno ho visto spuntare negozi di giocattoli quasi identici in Ladakh e in un remoto paese di montagna della Spagna. Entrambi vendono la stessa Barbie bionda con gli occhi azzurri e lo stesso Rambo con mitragliatrice.
La diffusione della “monocultura” industriale è una tragedia dalle tante implicazioni. Per ogni civiltà che distruggiamo, cancelliamo secoli di sedimentazione culturale, e quando differenti gruppi etnici sentono che la loro identità è minacciata, il conflitto e la disgregazione sociale seguono quasi inevitabilmente. 
La cultura occidentale viene ad essere considerata sempre più lo stile di vita normale, l’unico stile di vita. E più gente nel mondo si mette in competizione e diventa avida ed egoista, più queste caratteristiche tendono a essere attribuite alla natura umana.
Nonostante le persistenti voci contrarie, il pensiero dominante nella società occidentale da tempo parte dal presupposto che siamo aggressivi proprio per natura, imprigionati in un conflitto darwiniano perpetuo.
Le implicazioni di questa visione sul modo in cui strutturiamo la nostra società sono di fondamentale importanza. Le nostre assunzioni sulla natura umana, cioè se crediamo che essa sia intrinsecamente buona o cattiva, stanno alla base delle nostre ideologie politiche e danno forma alle istituzioni che governano la nostra vita.
Nella nostra cultura dominante attribuiamo la responsabilità dei problemi dell’uomo alle debolezze innate della natura umana, ma non consideriamo il nostro intervento attivo in quei cambiamenti strutturali detti “sviluppo” o “progresso”. Il cambiamento tecnologico è considerato parte di un continuum evolutivo. Come gli esseri umani si sono evoluti nel corso di millenni, cominciando a camminare eretti, a usare il linguaggio, a creare manufatti, così essi, si ritiene, hanno inventato la bomba atomica e la biotecnologia1. Non distinguiamo fra evoluzione e cambiamenti dovuti invece alla rivoluzione scientifica, dimenticando che, mentre l’Europa veniva trasformata dall’industrializzazione, la maggior parte del mondo continuava a vivere secondo altri princìpi e valori. Così, stiamo di fatto affermando che gli occidentali sono più evoluti rispetto alle popolazioni tradizionali. 
Trattiamo il cambiamento tecnologico con più naturalezza di quando cambia il tempo e sembriamo essere legati alla convinzione che ovunque vada l’inventiva scientifica, abbiamo il dovere di seguirla. Con ciò non intendo negare che la natura umana abbia un lato oscuro o che il processo di sviluppo abbia portato benefìci, tuttavia il Ladakh mi ha dimostrato che tale processo inasprisce l’avidità, la competitività e l’istinto di aggressione,  accentuando quindi il potenziale di distruzione. Mai in precedenza era stato possibile influenzare il clima, avvelenare mari o distruggere foreste, specie animali e altre culture al ritmo con cui lo facciamo oggi. La dimensione e la velocità del nostro potere distruttivo non sono mai state così grandi. Non ci sono precedenti storici. La nostra situazione è inedita e il tempo non è dalla nostra parte.
La devastazione ambientale su larga scala, l’inflazione e la disoccupazione sono conseguenze di una dinamica tecno-economica, che ha ben poco a che fare con la politica di destra o di sinistra. Fondamentalmente, il mondo ha sperimentato un unico modello di sviluppo, basato su un solo tipo di scienza e tecnologia. La specializzazione e la centralizzazione che ne sono derivate hanno portato a un mutamento drastico nello stile di vita più importante e capace di mettere in ombra le differenze fra capitalismo e comunismo.
In Ladakh ho conosciuto una società in cui non esiste spreco né inquinamento, una società in cuie la criminalità è virtualmente inesistente; le comunità sono sane e forti e un adolescente non si sente mai a disagio, se si comporta con garbo e affettuosamente con sua madre o sua nonna. Poiché tale società inizia a collassare sotto la pressione della modernizzazione, la rilevanza di queste lezioni va ben oltre l’esperienza del Ladakh.
Potrebbe sembrare assurdo che una cultura “primitiva” dell’altopiano tibetano possa avere qualcosa da insegnare alla nostra società industriale. Tuttavia, abbiamo bisogno di un termine di paragone con il quale capire meglio la nostra complessa cultura. In Ladakh ho visto il progresso allontanare le persone dalla terra, le une dalle altre e infine da se stesse. Ho visto persone felici perdere la propria serenità quando hanno cominciato a vivere secondo le nostre norme. Di conseguenza, sono arrivata alla necessaria conclusione che la cultura giochi un ruolo assai più fondamentale nella formazione dell’individuo di quanto pensassi in precedenza.
Al momento, una visione delle cose sempre più ristretta ci impedisce di individuare le radici di molti dei nostri problemi; ci perdiamo nei particolari, come se non riuscissimo a vedere una foresta a causa degli alberi. La cultura occidentale è nelle mani di esperti che mettono a fuoco elementi sempre più specializzati e immediati, a spese di una prospettiva più ampia e a lungo termine. Le forze economiche stanno trascinando il mondo rapidamente verso una sempre crescente specializzazione e centralizzazione e verso un modello di vita, che richiede sempre più capitale e energia. 
Abbiamo un bisogno urgente di fare rotta verso un equilibrio sostenibile, un equilibrio fra urbano e rurale, maschile e femminile, cultura e natura. Il Ladakh può aiutare a mostrarci la via, offrendoci una più profonda comprensione delle forze fra loro connesse, che stanno modellando la nostra società. Questa prospettiva più ampia è, credo, un passo essenziale per imparare a guarire noi stessi e il nostro Pianeta.
TRATTO DAL PROLOGO
Il futuro nel passato Helena Norberg-Hodge,
Una lezione di saggezza dal Ladakh: il piccolo Tibet www.ariannaeditrice.it