RICORDANDO IPAZIA

«L’ultimo fiore meraviglioso della gentilezza e della scienza ellenica»

Così nei “Pensieri”, Blaise Pascal definì la filosofa d’Alessandria d’Egitto.
Alla quale sono legato. Sin da fanciullo.
(Il legame è tale che una delle mie gatte ha ricevuto il suo nome.)


L’energia femminile, espressa alla massima potenza, di questa maestra di pensiero, rigore morale e straordinaria dignità, infiammò filosofi, scrittori e poeti di tutti i tempi. Giacomo Leopardi non ultimo.
Ipazia, splendido fiore nel giardino del mondo, rifiorì nella loro immaginazione. Per sedici secoli. Dal marzo 415. In cui, dopo un’imboscata per le strade di Alessandria d’Egitto, fu trascinata nel Cesareo, denudata e linciata. E i suoi resti, in sacchi di iuta, dati alle fiamme in mezzo all’immondizia.
Un linciaggio sadico. Inumano. Efferato. (I cui dettagli esecrabili mi rifiuto di descrivere.) Per mano di una turba di fanatici esponenti di quella che da poco era diventata la religione di stato nell’impero romano-bizantino.

Nel monumentale “Declino e caduta dell'impero romano”, Edward Gibbon scrive:
«Il suo omicidio è una macchia indelebile nella storia del cristianesimo».
La turba di fanatici fu istigata da un mandante subdolo e misogino, assetato di potere: il vescovo Cirillo, patriarca d’Alessandria.
Cirillo fu proclamato santo e dottore della Chiesa nel 1882. Da papa Leone XIII. Lo stesso papa che, il 30 giugno del 1889, condannando l’irrazionale libertà di pensiero e d’insegnamento, confermò in pieno la legittimità della condanna e del rogo di un altro «stravagante di debolezza e corruzione»: Giordano Bruno.

Ipazia, non fu solo, come descrivono le enciclopedie, filosofa neoplatonica, letterata, matematica, musicologa e astronoma, inventrice del planisfero e dell’astrolabio, protagonista autorevole nella scienza del suo tempo. Fu anche una carismatica maestra di pensiero, integrità e moderazione. Bellissima. Altera. Amata dalla gente. Alla quale divulgava il sapere per le strade di Alessandria. Poiché la conoscenza è il primo strumento di libertà dell’essere umano. Ambita dai discepoli della sua scuola. Che respinse sempre.
A un suo giovane allievo, infatuatosi perdutamente di lei - narra il filosofo bizantino Damascio - portò a lezione uno di quei panni che le donne usano per il sangue mestruale. E glielo parò innanzi. «In definitiva», gli disse, «è di questo, ragazzino, che ti sei innamorato. Di niente di sublime».
Lui comprese. Intimamente. E continuò a starle accanto, a seguire i suoi insegnamenti. Sino alla tragica fine.

Dopo il massacro di Ipazia, la corte di Costantinopoli inviò ad Alessandria il commissario Edesio. Uomo corrotto. Che scagionò il vescovo Cirillo, il quale potè così governare la megalopoli d'Egitto da padrone assoluto per i successivi trent’anni.
Tutti i libri di Ipazia e della scuola alessandrina furono dati al fuoco. Così come la sua memoria, il suo saper suscitare fiducia nelle nobili qualità dell’essere umano e il piacere che prende vita dalla libera condivisione delle conoscenze.

Ma quella “educazione ellenica” per lo sviluppo armonico, organico dell’essere umano, la “paideia”, quel «metodo più fertile ed efficace per coltivare la mente» e rendere esseri umani completi, come lo definiva Sinesio, il discepolo prediletto di Ipazia, è continuata ad ardere sotto la cenere. E periodicamente, in certe congiunture speciali nello spazio-tempo, il fiore di quella multiforme creatività del ‘pensiero del risveglio’ rifiorisce.
Per chi sappia accorgersene.
Fremente.
Ancora.

Evviva!
Gianluca Magi

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